Pietro Mennea: campione in pista e nella vita
È morto ieri a Roma Pietro Mennea, dopo mesi di dolorosa malattia. Dopo l'oro nei 200 metri delle Olimpiadi dell'80, aveva all'attivo quattro lauree e una lunga carriera politica. Perché: «La fatica non è mai sprecata».
«Ho vinto tanto da atleta, ma non si può vivere di ricordi. Ogni giorno bisogna reinventarsi, avere progetti e ambizioni». Lo diceva un anno fa Pietro Mennea, all'alba dei suoi sessant'anni. Negli occhi i successi che trent’anni prima lo avevano reso la “Freccia del sud”, ma anche la grande quantità di esperienze in cui ha voluto buttarsi dopo il ritiro dall'attività agonistica. Il velocista se n'è andato ieri in una clinica di Roma, ucciso da un cancro che da 8 mesi non lo lasciava in pace.
Per tutti è stato il simbolo di un'era, il talento sopraffino di un ragazzo figlio del Meridione italiano del secondo dopoguerra, che con fatica e testardaggine era riuscito a mettersi dietro tutti i grandi dell'atletica mondiale in un periodo in cui questo sport era niente in confronto al grande tam-tam di record e sponsor con cui gli anni Novanta ci hanno consegnato i vari Michael Johnson, Maurice Greene, Asafa Powell, Husain Bolt. C'erano dei tratti di leggenda nei trascorsi di questo adolescente, che in Puglia si divertiva a gareggiare contro Alfa e Porsche scommettendo i soldi per un panino, o per un biglietto del cinema, riuscendo ad essere puntualmente il più veloce. Per tutti Pietro Mennea divenne un numero: 19,72, come il tempo che stabilì alle Universiadi di Città del Messico del 1979, record del mondo dei 200 metri: pronti via e aveva già dato ai rivali metri su metri. 17 anni ci sono voluti per sfilare il suo nome da quel primato e trasferirlo sul curriculum dello statunitense Johnson. In Europa però nessuno è ancora riuscito a fare meglio di quella scheggia bianca, tra gli ultimi baluardi prima che iniziasse la dittatura dei velocisti di colore.
Eppure a Mennea non bastava: l'età matura lo portò alle Olimpiadi di Mosca da grande favorito, forte di quanto fatto l'anno precedente e forte dell'assenza degli atleti statunitensi, che avevano deciso di boicottare i giochi a cinque cerchi in seguito all'invasione sovietica dell'Afghanistan. Quella pagina di storia rischiava di privarlo dell'occasione d'oro, che alla fine invece premiò la sua dedizione chirurgica per gli allenamenti. La finale fu un qualcosa da urlo, con un recupero che neanche a vederlo in immagine c'è da crederci: penultimo a metà gara, primo sul traguardo con 2 centesimi di vantaggio sullo scozzese Wells. E una popolarità che lo portò sulla cresta dell'onda, sempre seguita con silenzio serio e autorevole, da un uomo tutto d'un pezzo, mai blandito dalla fama. «5482 giorni di allenamento, 528 gare, un oro e due bronzi olimpici, più il resto che è tanto. A 60 anni non ho rimpianti. Rifarei tutto, anzi di più. E mi allenerei otto ore al giorno. La fatica non è mai sprecata. Soffri, ma sogni».
Sarebbe bastata l'onorificenza delle Olimpiadi dell'88, quando fu scelto come portabandiera azzurro a Seul, per offrirgli la passerella per congedarsi nel migliore dei modi dallo scenario sportivo e dedicarsi al riposo e alla vita privata. Invece la grandezza di Pietro Mennea si è vista proprio nel momento in cui un normale sportivo si troverebbe più in difficoltà, quando cioè la luce dei riflettori si spegne e obbliga il campione a pensare a una nuova vita normale, senza i ritmi, le gare e le gioie passate. Perché il suo carattere energico, tenace e incallito, non lo ha mai fatto cedere, portandolo a re-inventarsi ogni anno in nuove avventure dove è stato a suo modo in testa: prima nello studio, con il raggiungimento di addirittura quattro lauree. Poi nella passione per la legge, la lotta al doping, i libri denuncia. E nella sua lunga esperienza in politica, da europarlamentare: nel ’99 si candidò con Di Pietro e l’Italia dei Valori, poi passò a Forza Italia, nel 2000 fu relatore del Rapporto sullo sport approvato a Strasburgo.
«Vado più veloce adesso», diceva proprio un anno fa, guardando la marea di attività in cui si è cimentato, sempre con la sua dedizione al sacrificio, a volte anche risultando scomodo e ruvido, come quando, stando sempre ai mesi scorsi, aveva criticato apertamente la proposta di portare a Roma i giochi a cinque cerchi del 2020. Temeva che i costi troppo alti avrebbero messo in ginocchio la nostra economia, come accaduto alla Grecia: «Non abbiamo bisogno di Olimpiadi, ma di tanti piccoli impianti utili e fruibili da tutti e a buon mercato. Possibilmente gratis». Anche dal suo sport, l’atletica, era stato messo ai margini: troppo rigido nei suoi modi di combattere il doping, si guardavano a distanza. Ma era anche avvocato, e dal 2006 aveva fondato insieme alla moglie una Fondazione che prendeva da lui il nome: svolgevano attività solidale e filantropica in vari modi. I ricordi nel cassetto, l’ambizione sempre in mano cercando ogni volta di correre più rapido di quanto già era riuscito a fare. Poi la malattia: veloce l’ha preso, veloce se l’è portato via.