”Piccolo Uovo": intrattenimento bello, gaio e subdolo
La Nuova Bussola è andata al Teatro Litta per scoprire cosa sia veramente "Piccolo Uovo", lo spettacolo per i bambini che equipara la famiglia alle altre unioni (gay, di fatto, ecc). Il risultato: un bel lavoro che trasmette subdolamente un messaggio ideologico. E falso.
- Uno spettacolo per educare i bambini alla cultura gay di T. Scandroglio
Il “Piccolo uovo” – lo spettacolo tratto dal libro illustrato da Altan, famoso per l’immortale “Pimpa”, e realizzato dalla regista Francesca Mainetti – è ben confezionato, lo spazio della scena dei pinguini gay è ridotto a poca cosa. Insomma, le critiche che in questi giorni infiammano la stampa paiono, in un primo impatto, esagerate. Eppure, un messaggio subdolo in quanto tale non può essere palese, ma mediato da una serie di accortezze. L’intrattenimento come passaggio di un’ideologia è presente sin dai primordi dell’arte, e per essere efficace l’ideologia dev’essere celata, indorata e, in questo caso, riempita di zucchero.
L’opera è realizzata dalla compagnia esterna Teatro19 e ospitata all’interno della ventisettesima rassegna di teatro per le scuole. I singoli docenti possono scegliere di vedere uno o più spettacoli in un campionario di dodici diversi titoli. Tra questi svetta “Piccolo Uovo”, di cui tanto è stato detto anche su questo sito.
Una piccola introduzione racconta il pretesto scenico: una bimba – interpretata prodigiosamente da Valeria Battaini – litiga con la mamma e decide di rinchiudersi nella sua stanza. Qui, chiede la comprensione di Damiano, il suo amico immaginario, che è poi l’ombra della bambina stessa. Il gioco di luci, che ingrandisce le sagome e permette la sovrapposizione di più personaggi su uno stesso pieno, è l’elemento più convincente della narrazione, e il plauso va a Carlo dell’Asta. Anche gli oggetti scenici – barche, bestie varie e sagome di pinguini antropomorfi – sono curati nel dettaglio da Francesco Levi.
Insomma, la bimba si chiude in se stessa e immagina il ritorno a uno stato fetale, dove regredisce all’utero materno – chiamato semplicemente “uovo” – immaginando di poter decidere in quale famiglia nascere. Inizia così un percorso conoscitivo che la porta a comprendere le diverse realtà familiari. Inizialmente, ci sono due cervi i quali, non riuscendo a concepire un figlio, viaggiano verso esotiche mete africane, adottando poi una scimmietta. Una trasposizione animale dell’adozione. Il dono dell’accoglienza ha origine del giusto desiderio di maternità e di paternità della giovane coppia di cervi, ma nel complesso manca di gratuità. Prima dell’adozione, infatti, c’è un periodo di “verifica” dove i tre giocano assieme. Solo alla maturazione della certezza che la scimmietta è “quello che loro vogliono” che inizia la convivenza. Non c’è rischio, c’è solo un progetto. E l’amore non è gratuito.
La scena incriminata, vera e propria “pietra di scandalo” della critica, è la successiva: due sagome di pinguini, con tanto di camicie e pantaloni, fanno tutto insieme. Nuotano, corrono, giocano. E vorrebbero un bambino. Il passaggio tra queste azioni non ha quasi soluzione di continuità: non ha un peso maggiore, l’ultima opzione. È un desiderio pienamente naturale. Peccato che la coppia sia composta da due pinguini di sesso maschile. Trovano un uovo abbandonato, lo curano come fosse loro, ed ecco che hanno il tanto atteso pulcino. Si amano, sono felici: tanto basta. È la felicità ad essere il discrimine tra una famiglia sana e una non sana. Si dimentica di dire, però, che la felicità stessa ha delle condizioni, dei doveri. È una lotta quotidiana.
Le scene procedono: prima, viene descritta una famiglia in cui un padre single ha da badare a dieci pargoli. Poi, prende parola l’ombra-Damiano – che la protagonista apostrofa come «migliore di un fratello» – che narra della sua avventura nel districarsi tra genitori separati e i corrispettivi nuovi consorti. Con un finale che ha l’oggettività di un’equazione matematica: più persone ci sono in una famiglia, più amore c’è.
Eppure, non si può fare a meno di notare che gli unici animali “vestiti”, coscientemente antropomorfi, sono proprio loro, i pinguini innamorati. Inoltre nel “Piccolo Uovo” la dimensione dell’alterità, necessaria in qualunque tipo di educazione, viene a mancare. Se l’’“altro” è considerato come un semplice alter ego di se stessi – e ben lo mostra il rapporto tra la protagonista e l’amico “immaginario” –, ci si sente giustificati a vedere l’intero mondo esterno come necessariamente confacente alle proprie aspettative. Un’ampia pretesa. La famiglia, invece, si basa sull’alterità, necessaria per qualunque unione di sorta.
- Uno spettacolo per educare i bambini alla cultura gay di T. Scandroglio