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L'ANALISI

Pianto greco? La crisi si risolve con meno Stato

Come si è arrivati alla “crisi greca”? Dopo svariati anni di profonda crisi finanziaria ed economica, in tutti i Paesi occidentali - con l’aggravante per l’area euro delle tensioni sui debiti sovrani dei Paesi “periferici” ancora non si vede la luce. Perché? Un po' di storia di come si è arrivati alla crisi e qualche proposta per risolverla.

Economia 26_02_2015
Il premier greco Tsipras

La Grecia inizia a dare segnali di grave instabilità delle finanze pubbliche nel 2009, a causa di una crescita esponenziale del proprio debito, in un contesto di bassa crescita economica. Il debito pubblico ellenico viene declassato a “spazzatura” nell’aprile 2010 ed il Paese galleggia solo grazie ad ingenti prestiti–salvataggio concessi dagli altri Paesi dell’euro zona e dal Fondo Monetario Internazionale (per 240 miliardi di euro). Nella primavera del 2012 i creditori privati subiscono una pesante ristrutturazione del proprio credito, perdendo circa il 75% dei propri risparmi. Nonostante ciò, il debito dal 2012 ha ripreso a salire portando le finanze elleniche nuovamente al collasso. 

Nelle trattative di questi giorni l’eurogruppo ha accordato quattro mesi al governo greco per individuare una via di uscita dall’impasse, chiedendo la definizione di linee guida per arrivare ad un avanzo primario di bilancio: senza considerare gli interessi su debito il Paese dovrà quindi dimostrare di restringere la spesa pubblica a livelli compatibili con le entrate fiscali. Entro il 28 febbraio – prossima data di debiti in scadenza – il governo ellenico dovrà avere ottenuto il via libera al proprio piano da Bce, Commissione europea, Fondo Monetario Internazionale e diversi Parlamenti nazionali dell’area euro, in modo che il cosiddetto Fondo salva-Stati, l’Efsf (European Financial Stability Facility) possa intervenire evitando alla Grecia un default disordinato, il collasso del proprio sistema bancario e la conseguente fuoriuscita dall’euro. 

Al di là dell’evoluzione delle trattative tra il governo ellenico di Tsipras-Varoufakis e le autorità europeeuna telenovela sui cui non vale la pena addentrarsi oltre perché riserverà ancora molte puntate nei mesi a venire, tra ballon d’essai e tatticismi incrociati – sembra più utile ragionare sul processo che ha portato la Grecia e gli altri Paesi periferici, tra cui l’Italia, in una situazione di collasso delle finanze pubbliche e di crescita economica asfittica. Un ragionamento che quindi vale, mutatis mutandis, non solo per la Grecia ma anche per tutti i Paesi maturi afflitti dal debito, dallo statalismo e dal collasso demografico. 

Come fa un Paese a crescere in modo sostenibile? In un’economia sana e libera, la crescita si sviluppa a partire dal lavoro e dal risparmio attraverso un processo di accumulazione di capitale - non solo materiale ma anche di conoscenze, catalizzato dall’iniziativa imprenditoriale – che fa salire la produttività ed i salari reali, realizzando beni e servizi utili alle famiglie. Un processo che parte dal basso, senza pianificatori centrali, in cui il sistema dei prezzi e la concorrenza orientano le scelte economiche di risparmio, consumo ed investimento, all’interno ovviamente di un quadro giuridico-istituzionale e di un tessuto sociale sano ed articolato. Il ruolo dello Stato è quindi limitato a pochi compiti, e sempre secondo una logica di sussidiarietà. In Grecia – e in Italia – le cose non sono andate esattamente in questi termini…

Nella visione keynesiana, dominante nell’accademia e nelle politiche dei governi negli ultimi 70 anni, la crescita dipende invece dalla “domanda aggregata”, il focus è cioè sul consumo: in caso di “risorse inutilizzate” la crescita deve essere stimolata dal governo e dalle Banche Centrali con vari mix di politiche “espansive”, sia fiscali (aumento spesa pubblica) sia monetarie (manipolazione al ribasso dei tassi di interesse, monetizzazione del debito), per arrivare alla piena occupazione. Questa impostazione – vera e propria fallacia economica – ha fornito e continua a fornire ai governi di mezzo mondo l’alibi per l’adozione di politiche economiche dirigistiche, con un interventismo crescente nella vita sociale ed economica. Ciò ha portato all’ipertrofia dei moderni Stati assistenziali e imprenditori, in cui l’allargamento del perimetro pubblico pare inarrestabile. Una “lezione” che Atene ha imparato a perfezione, ma che riguarda anche Roma, Parigi, Washington, Tokyo…senza escludere neppure Berlino. 

Lo spiazzamento dell’iniziativa privata, in tale contesto, viene aggravato dalla falsificazione della concorrenza, non più né libera né leale, portando ad un intreccio clientelare tra imprese e politica: utili privati e perdite pubbliche, cattivi investimenti, malversazioni, spreco di risorse a danno dei consumatori-contribuenti, con prezzi troppo elevati dei beni e servizi prodotti oltre ad un imposizione fiscale crescente che strangola l’economia.  Le politiche di deficit spending – il disavanzo di Bilancio dovuto all’eccedenza della spesa pubblica sulle entrate fiscali – portano ad un’accumulazione di debito pubblico: un vero e proprio “schema Ponzi”, in cui l’emissione di nuovo debito serve a pagare gli interessi e a rimborsare il debito in scadenza, in una crescita esponenziale che si autoalimenta. Quando le dinamiche della crescita del debito superano quelle della crescita economia (il famoso rapporto debito/Pil) si arriva ad un punto di non-ritorno. Ulteriori giri di vite fiscali servirebbero solo a strangolare ancora di più l’economia reale e a far contrarre il Pil, rendendo ancora più insostenibile la traiettoria debito/Pil: una vera e propria “trappola del debito”, che vampirizza la possibilità di crescita economica. É la storia della Grecia degli ultimi anni, ma anche del nostro Paese, con un’accelerazione dal 2011.

Il “suicidio demografico” di cui parlava san Giovanni Paolo II parlando dei Paesi maturi (in primis Giappone e Russia ma anche Grecia, Italia, Germania) accelera la rottura di una traiettoria già di per sé insostenibile. Basti pensare alla crescente insostenibilità del sistema sanitario e previdenziale con il progressivo aumento della popolazione ultra 65-enne rispetto alla popolazione in età lavorativa. Le “piramidi demografiche” dei Paesi maturi assomigliano sempre di più a dei funghi: una base di giovanissimi e giovani erosa, un allargamento nella fascia di mezza età – gli ex-baby boomers oramai invecchiati – e un “cappello” ogni anno più grosso: a tendere una piramide “rovesciata”, che non può stare in piedi, né in Grecia né nel nostro Paese. 

Come si esce dall’impasse? La soluzione più trasparente sarebbe il default de jure: si procede a una sforbiciata ai debiti insolvibili e i creditori “incassano la perdita”, per poi ripartire col piede giusto. In alternativa, senza escludere soluzioni intermedie, si può tentare un’uscita inflazionistica, attraverso la manipolazione al ribasso dei tassi di interesse e la crescita dell’inflazione. In tal modo, se si riescono a mantenere in territorio negativo i rendimenti reali per diversi anni, il debito viene “svalutato”: una sorta di tassa occulta ai danni del risparmio, con trasferimento di ricchezza dai creditori ai debitori. É questa la via intrapresa dalla Bce, il cui quantitative easing porta a una monetizzazione indiretta dei debiti sovrani dei Paesi periferici come l’Italia.  

In ogni caso, però, quando si ha a che fare con crisi di “solvibilità” – e non, semplicemente, di “liquidità” – la formica che ha ingenuamente finanziato la cicala prima o poi si trova beffata: sicuramente Esopo avrebbe diffidato di Lord Keynes. Oltre al trasferimento di ricchezza, la manipolazione al ribasso dei rendimenti attraverso le politiche monetarie ultra-espansive delle Banche centrali comporta vari effetti collaterali: inadeguata remunerazione del risparmio, invio di falsi segnali all’economia con incentivo all’azzardo morale, alla “finanziarizzazione dell’economia” ed a cattivi investimenti. Il rischio è quello di minare alla radice il processo di accumulazione capitalistico essenziale per la crescita di produttività, salari reali e diffusione del benessere. I primi danneggiati, contrariamente alla vulgata “solidaristica”, sarebbero proprio le classi sociali più disagiate, le categorie meno beneficiate dagli intrecci malsani col potere pubblico, e le giovani generazioni in generale, il cui futuro viene compromesso. La storia del collasso dei Paesi del “socialismo reale” dovrebbe averci insegnato qualcosa. 

Per gli anni a venire si delineano scenari “alla giapponese” per tutti i Paesi maturi, intrappolati nel debito ed afflitti dal declino demografico, siano o non siano nell’euro, che ci rimangano o che ne fuoriescano. La Grecia è solo l’avanguardia. Occorre prendere atto della fine del paradigma di “crescita a debito”, che porta al fallimento di sistemi socio-economici di fatto “socialisti” in cui le interferenze pubbliche premiano scelte sbagliate e fanno emergere dalla competizione non i migliori ma i più intrallazzati. Ciò porta inesorabilmente a far inaridire le fonti stesse della ricchezza, a scoraggiare l’iniziativa, la laboriosità e l’austerità, a danno dei consumatori, dei lavoratori, delle imprese sane, dei contribuenti. I corpi intermedi si trovano così svuotati della loro vitalità, depressi nella loro creatività imprenditoriale da una mentalità parassitaria ed assistenzialistica. La fuga dalla responsabilità e la conseguente abdicazione alla libertà distruggono le “virtù” di un popolo, fanno evaporare la classe media, inaridire il benessere materiale e crescere tensioni e conflittualità. 

I tedeschi inistono sul dovere di pagare i debiti; i greci lamentano l’impossibilità di onorarli; il paradosso è che sono vere entrambe le posizioni. Hanno sbagliato i debitori ad indebitarsi – come una famiglia che vive al di sopra dei propri mezzi – ma hanno sbagliato anche i creditori ad alimentare questo atteggiamento: il male, lungi dal guarire, si è solo incancrenito. Il default e l’uscita della Grecia dall’euro sono strade percorribili? Probabilmente si farà di tutto per evitare tale scenario, perché costituirebbe un precedente pericoloso per gli altri Paesi “periferici” (a partire dall’Italia), oltre che per possibili ricadute geopolitiche. La Grecia pesa poco sul piano economico, ma la sua posizione geografica potrebbe attirare aiuti interessati da altre potenze, come la Russia e la Cina. 

Che cosa accadrà? Nel breve lo scenario più probabile rimane il solito teatrino: la Grecia fingerà di impegnarsi per il risanamento chiedendo margini operativi più ampi, e le controparti europee fingeranno di crederci. Si “comprerà” ancora tempo, rinviando ad un futuro imprecisato scelte più draconiane. Il “tempo”, tuttavia, è parte della soluzione solo quando si intraprende la strada giusta, altrimenti diviene parte del problema.  Comunque vada a finire, la “crisi greca”, quindi, assurge ad emblema di una crisi generale: il presente della Grecia potrebbe divenire il futuro dell’Italia e di tutti gli altri Paesi statalisti, che strangolano l’economia con le tasse, fanno fuggire le imprese ed i giovani più validi, incoraggiano l’assistenzialismo ed il parassitismo. La moneta cattiva scaccia la moneta buona…

Siamo dentro una profonda crisi “generazionale”: comunque vada a finire con la Grecia e con l’euro, l’unica certezza è che ne avremo per molti anni a venire. Continuare ad illudersi che si tratti solo di una “congiuntura” sfortunata non aiuterà ad invertire tendenza. Prima accetteremo che la ricchezza non viene creata dai governi e dalle Banche centrali e prima rivedremo la luce.