Perdono e verità, una lezione da Gornji Vakuf
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Una madre italiana che rinnova il perdono per i miliziani bosniaci che trenta anni fa hanno ucciso il suo unico figlio impegnato in una missione umanitaria, ma chiede la verità su quanto accaduto, indica la strada che serve anche alla Bosnia per arrivare a una vera riconciliazione.
«Vi ho scritto per dirvi che non provo rancore né odio per chi li ha uccisi, ma che io li perdono e unisco il mio dolore materno a quello di tutte le vostre madri, che hanno perso i propri figli». Così scriveva nel giugno del 1993 Franca Lana, madre di Sergio, uno dei tre volontari italiani uccisi sulla strada che da Gornji Vakuf porta a Novi Travnik poche settimane prima, il 29 maggio. I tre, insieme ad altri due sopravvissuti, portavano un camion carico di viveri e medicinali alle popolazioni della Bosnia centrale, devastata dalla guerra.
Molto difficile perdonare chi ti ha ucciso il tuo unico figlio di venti anni, che voleva solo fare del bene, ma Franca e suo marito Augusto attraverso un percorso travagliato e sostenuti dalla fede e dagli amici, lo hanno fatto.
E lo hanno ribadito pochi giorni fa – il 29 maggio, per il trentesimo anniversario - tornando sul luogo in cui loro figlio e gli altri furono fermati sulla strada di montagna pochi chilometri oltre Gornji Vakuf, prima di essere condotti per l’esecuzione in una radura più interna. Franca Lana ha pronunciato ancora quella parola, perdono, convintamente. E tutti i presenti – le autorità locali, l’ambasciatore italiano Marco Di Ruzza, una cinquantina di pellegrini giunti da Ghedi (Bs) – hanno potuto anche capire la radice profonda di quel perdono, quando ha mostrato la corona del rosario che Sergio aveva al collo al momento dell’uccisione: «A Sergio – ha detto la mamma – è stato portato via tutto quello che aveva, ma grazie a Dio questa mi è ritornata. Con questa corona lui ha pregato fino alla fine per sé e per noi genitori. E ci sta aiutando tanto, perché ogni giorno io e mio marito Augusto preghiamo con la corona di Sergio».
Ma accanto alla parola perdono, ne è comparsa un’altra, pronunciata con la stessa forza e convinzione: verità. «Cerchiamo il bene del nostro figlio Sergio e cerchiamo e vogliamo la verità. Non vendetta, ma la verità». Parole che per un attimo hanno trapassato i presenti, forse consapevoli che la verità è ancora più difficile del perdono.
In effetti c’è stata una verità processuale: è stato condannato il comandante “Paraga”, al secolo Hanefija Prijic, a capo della milizia musulmana che ha materialmente bloccato il convoglio italiano e deciso la loro sorte. Ma troppe cose restano non chiarite: se Paraga ubbidiva a qualcun altro ed eventualmente a chi, le reali circostanze che hanno portato alla salvezza di due dei cinque italiani protagonisti, la stessa genesi del viaggio umanitario che aveva visto insieme persone che agivano sotto le insegne della Caritas e altre che rappresentavano associazioni di sinistra. E quanto emerso al processo ha suscitato molte più domande delle risposte che ha dato.
C’è dunque un diritto dei genitori di Sergio a sapere cosa è veramente accaduto perché il perdono non esclude la giustizia, anzi la esige. Come ha scritto san Giovanni Paolo II nel messaggio per la Giornata della Pace del 2002: «Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali» (no. 3).
Ma l’eccidio del 29 maggio 1993 si inserisce nel quadro di una guerra feroce che in quei mesi raggiungeva probabilmente il suo apice e bisogna essere consapevoli che i combattenti e i comandanti di allora sono in gran parte i politici e i vertici militari di oggi. Sollevare il coperchio su quell’eccidio potrebbe facilmente creare reazioni a catena che nessuno sembra augurarsi, “amici” stranieri compresi.
Seppure si deve dare grande merito all’ambasciatore italiano Di Ruzza (nella foto a dx con Augusto e Franca Lana) di avere fatto un grande lavoro per portare insieme alla cerimonia del trentesimo anniversario le varie autorità locali – il sindaco di Gornji Vakuf (Uskopjie per i croati) Sead Causevic, il presidente del Consiglio comunale, il croato Goran Batinic, l’imam Hidajet Polovina, il parroco p, Josip Matijanic – resta la percezione che in generale si pensi di poter superare le divisioni censurando il passato, mettendoci una pietra sopra. Ma il passato ritorna, perché le ferite sono troppo profonde, il male fatto e subìto chiede giustizia e perdono, come ha descritto san Giovanni Paolo II. Per questo, sebbene i volti dei tanti giovani e bambini incontrati nella chiesa di Gornji Vakuf dicano la speranza per un futuro diverso, a quasi trenta anni dalla fine della guerra la situazione è tutt’altro che pacificata. E quanto sta accadendo nel vicino Kosovo ne è una dimostrazione e un avvertimento.
Avendo personalmente partecipato a questa commemorazione, posso dire di avere avvertito a Gornji Vakuf tutta la fragilità e la precarietà di questa pace. Una pace ancora più difficile in una Europa in guerra, con tensioni che arrivano ovviamente anche ai Balcani, e non può certo bastare a una vera pacificazione che l’Unione Europea abbia accolto la Bosnia-Erzegovina tra i paesi candidati all’ingresso nella UE.
Non ci sarà mai una vera pace e una vera riconciliazione senza fare i conti con quanto è accaduto nei primi anni ’90, confessando e chiedendo perdono per le atrocità commesse e perdonando i nemici che le hanno commesse a loro volta.
E qui le vicende della Bosnia e dei tre volontari italiani tornano a intrecciarsi, perché possiamo auspicare che la testimonianza di perdono di Franca e Augusto Lana – ripresa da diversi media bosniaci – faccia breccia nei cuori di altri bosniaci che ne seguano l’esempio, inclusi quelli coinvolti nell’eccidio degli italiani. Solo così, probabilmente, sarà possibile conoscere anche la verità di quanto accaduto quel 29 maggio 1993.