Perché tanta fortuna, ma poco amore per I promessi sposi?
Fin da subito il romanzo incontrò il consenso di grandi estimatori, come Johann Wolfgang von Goethe, e le critiche di denigratori. Quel che è certo è che fin dalla prima pubblicazione il successo de I promessi sposi fu clamoroso.
Fin da subito il romanzo incontrò il consenso di grandi estimatori, come Johann Wolfgang von Goethe, e le critiche di denigratori.
Quel che è certo è che fin dalla prima pubblicazione il successo de I promessi sposi fu clamoroso.
La ventisettana vendette sessantamila copie (tantissime per quel tempo) e ne vennero pubblicate clandestinamente molte migliaia, perché all’epoca non esisteva una legge che tutelasse il diritto d’autore. Proprio in quegli anni alcuni Stati italiani stavano varando decreti: il 28 febbraio 1826 il Regno di Sardegna promulgò le Regie patenti relative alle opere letterarie e più di vent’anni dopo Carlo Alberto avrebbe ribadito nello Statuto albertino l’inviolabilità di ogni forma di proprietà, compresa quella relativa alle opere d’ingegno.
Manzoni cercò di impedire pubblicazioni clandestine finanziando personalmente la seconda edizione, la cosiddetta quarantana; vi fece aggiungere le stampe di Francesco Gonin. L’operazione rappresentò, però, un fallimento finanziario e le pubblicazioni clandestine non cessarono.
Della quarantana vennero pubblicate duecentomila copie fino al 1900. Già a partire dai primi decenni del Regno d’Italia I promessi sposi rappresentarono una tappa fondamentale per la formazione e la diffusione della lingua italiana.
Il romanzo venne utilizzato come lettura obbligatoria per imporre un modello linguistico unitario fondato sul fiorentino vivo. Manzoni si prodigò nell’impegno dell’unificazione linguistica dell’Italia non solo con la diffusione del romanzo, ma anche attraverso la stesura di saggi e di lettere sulla lingua italiana.
Nella Lettera sulla lingua italiana, datata 26 febbraio 1847, inviata al letterato Giacinto Carena, Manzoni manifestò la sua avversione per la lingua letteraria a favore di quella viva: il fiorentino delle persone colte.
Manzoni affermava che non esisteva una lingua italiana unitaria e, quindi, la sua proposta del fiorentino non sostituiva l’italiano.
A vantaggio comune per poter intendersi era, pertanto, necessario che gli Italiani si accordassero a scegliere una sola lingua, anche tra coloro che non la conoscevano per «benefizio di nascita». Dopo di che era ragionevole riservare a questa sola il nome di «lingua» e avvalersi del nome di «dialetti» per tutte le altre.
Quando più tardi, il 14 gennaio 1868, il ministro della Pubblica istruzione Emilio Broglio nominò una commissione per ricercare le modalità per rendere unitarie la lingua italiana e la pronuncia, Manzoni, che apparteneva alla commissione, stese la relazione con un’alacrità prodigiosa, tanto che il 19 febbraio 1868 era pronto il testo Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla.
Manzoni riteneva che sostituire ai differenti mezzi di comunicazione, ovvero idiomi, un’unica lingua avesse come fine quello «d’intendersi gli uomini dell’intera nazione tra di loro, il più pienamente e uniformemente possibile». Già da cinquecento anni ormai si disputava in Italia su quale dovesse essere questo mezzo comune. Eppure «il mezzo c’era, come c’è ancora» ed era la lingua usata a Firenze.
L’unità della lingua, insieme con «l’unità di governo, d’armi e di leggi», era fondamentale per «l’unità d’una nazione». L’Italia poteva, così, «uscire da uno stato di cose» che la rendeva, «in fatto di lingua, un’eccezione, tra i popoli colti».
Così la relazione di Manzoni sarebbe diventata il punto di partenza anche per la realizzazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, edito in quattro volumi tra il 1870 e il 1897 a cura di Emilio Broglio e di Giambattista Giorgini, genero di Manzoni. La fitta corrispondenza del Manzoni con Broglio e Giorgini nel biennio 1868-1869 permette di cogliere nuovamente le indicazioni del romanziere riguardo alla realizzazione del vocabolario.
Si diffuse un particolare modello linguistico attraverso la lettura del romanzo, in particolar modo nelle scuole, ove fino ad oggi si è mantenuta quasi inalterata la diffusione del romanzo, anche se l’influenza culturale e letteraria del capolavoro è senz’altro scemata nel corso del Novecento e nel ventunesimo secolo.
Dalla riforma Gentile del 1923 sono solo due i testi della letteratura italiana che devono essere letti obbligatoriamente nel percorso degli studi delle superiori: I promessi sposi e la Divina commedia. Se consideriamo che il poema dantesco, opera di notorietà internazionale, è stato composto in epoca medioevale, il romanzo manzoniano è l’unico capolavoro della modernità che tutti gli studenti d’Italia devono conoscere.
Ma è effettivamente così? E la lettura dell’opera è accompagnata anche dall’amore per quelle pagine?
Purtroppo, raramente i ragazzi di quinta superiore sono arrivati fino all’ultima pagina del romanzo e conoscono l’intera storia. La constatazione, che di per sé a molti insegnanti non appare scandalosa, in realtà corrisponde ad assistere ad un film e ad uscire dal cinema all’intervallo o dieci minuti prima della conclusione. Quali studenti conoscono il «sugo della storia», espressione usata da Manzoni nell’ultima pagina de I promessi sposi per designare il senso della storia e che con evidenza plastica ribadisce che non leggere fino alle ultime righe del romanzo corrisponde a mangiare una pasta scondita?
Eppure a scuola è più facile che gli studenti sappiano ripetere i commenti di critici illustri sul romanzo e il loro giudizio sulla provvidenza manzoniana piuttosto che dicano semplicemente come Manzoni ha concluso il romanzo.
Per approfondire un aspetto della realtà è importante metterlo in relazione con il suo significato, con il senso, quello che Manzoni chiama «il sugo della storia».
Manzoni non ha voluto scrivere una favola a lieto fine, come potrebbe a taluni sembrare, né tantomeno ha voluto scrivere un’opera moralista. Entrambe le interpretazioni sono una deliberata riduzione della genialità del cristianesimo che emerge dalla lettura del romanzo.
Forse proprio la lettura parziale del romanzo senza arrivare alla conclusione e al senso dell’opera è una delle ragioni che favoriscono il disamore degli studenti per il romanzo. Vi sono, però, anche altre ragioni.
In primo luogo, la scuola, pur avendo il merito di aver proposto il romanzo a tutti gli studenti, salvandolo dall’oblio, dall’altra parte ha tradito il capolavoro, irrigidendolo in schemi di analisi e ipotesi interpretative che, lungi dal valorizzare la bellezza dell’opera, hanno reso noioso o addirittura ostile lo studio. Gli studenti, digiuni del romanzo, si trovano spesso soli nel difficile compito di capire una lingua di due secoli fa e una storia molto bella, che ha differenti livelli di lettura a comprendere i quali occorre, però, una preparazione.
In secondo luogo anche l’età in cui è previsto l’accostamento ai Promessi sposi è improvvida: difficilmente a quindici o sedici anni ci si accosta senza un fastidio all’idea di un lungo fidanzamento o di un matrimonio dopo una lunga attesa. Un adulto leggerebbe il romanzo con ben altro spirito e possibilità di comprensione, ma senz’altro anche un diciottenne potrebbe più facilmente apprezzare la riflessione esistenziale proposta da Manzoni a tutti i livelli (il fidanzamento, la fede, l’ingiustizia subita e quant’altro).
Si potrebbe obiettare (e giustamente!) che la lettura de I promessi sposi al biennio è l’unica opportunità per conoscere il romanzo. Di certo, allora diventa ancora più fondamentale l’accompagnamento alla comprensione della modernità e dell’attualità del testo grazie all’azione degli insegnanti che mostrino come le questioni e le domande che animano i personaggi del romanzo sono gli stesse che caratterizzano l’animo di tutti noi. Nei personaggi si possono poi rintracciare i tratti dell’uomo di ogni epoca: il carattere e gli umori di Renzo, la fedeltà e la pudicizia di Lucia, la spavalderia di don Rodrigo, la brama di potere del Conte Attilio, ecc.