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STATALISMO

Perché la scuola statale non sarà mai "buona”

Malgrado tutta la retorica sulla “Buona Scuola” e i suoi inevitabili successi, che per mesi il governo Renzi ha rovesciato sulle nostre teste, nel convulso pelago della scuola statale l’anno scolastico sta iniziando come al solito, ovvero con migliaia di casi di disservizio: cattedre scoperte, insegnanti che non si sono presentati e così via.  Tutto ciò è la conseguenza inevitabile della pretesa di governare in modo centralizzato e verticistico. 

Educazione 14_09_2016
Solito inizio problematico nella scuola statale

Malgrado tutta la retorica sulla “Buona Scuola” e i suoi inevitabili successi, che per mesi il governo Renzi ha rovesciato sulle nostre teste, nel gigantesco e convulso pelago della scuola statale l’anno scolastico sta iniziando  come al solito, ovvero con migliaia di casi di disservizio: cattedre scoperte, insegnanti che non si sono presentati e così via. 

Sarebbe però ingeneroso farne colpa soltanto a questo governo. Tutto ciò è la conseguenza inevitabile della pretesa di governare in modo centralizzato e verticistico un servizio con circa otto milioni di utenti e oltre 750 mila addetti. Una gigantesca “macchina” che nel 2015 è costata all’erario circa 50mila milioni di euro, quasi totalmente assorbiti dalla scuola statale (49.418 milioni di euro per la scuola statale e 494 milioni per quella paritaria, pari all’ 1,2% del totale).  

Caso mai, ciò che si può rimproverare a Renzi e al suo governo è la scelta di voler conservare a ogni costo il monopolio statale della scuola continuando così ad alimentare il sogno impossibile di un suo buon funzionamento.  Quale che sia la buona volontà di chi la organizza e di chi ci lavora, finché resta monopolio dello Stato la scuola pubblica semi-gratuita non può comunque essere una “Buona Scuola”. Ogni anno scolastico torna a ricordarcelo, e a spese degli utenti del servizio; in primo luogo con il drammatico dato degli oltre 45mila ragazzi e ragazze che ogni anno abbandonano gli studi. É una situazione di cui con ricchezza di dati e di osservazioni si farà un quadro nel prossimo libro della Bussola dal titolo Scuola: rompere il muro tra aula e vita, scritto da Giovanni Cominelli, noto esperto in materia. 

Lo studio è necessario come il pane.  Proviamo però a immaginarci che cosa succederebbe se la produzione del pane fosse monopolio di un ministero del Pane, con concorsi e graduatorie nazionali per l’assegnazione di anno in anno dei panificatori alle varie panetterie, accompagnata da una pioggia di ricorsi di coloro che non hanno passato il concorso o che vogliono fare il pane vicino a casa.  Lo spettro della carestia tornerebbe a incombere ogni autunno su di noi. Nel nostro Paese l’80 per cento degli insegnanti risiede a sud di Roma, mentre il 65 delle cattedre disponibili si trova a nord di Roma. Chi nel Sud ha scelto la carriera dell’insegnante dovrebbe mettere in conto il trasferimento al Nord come un’ipotesi molto probabile.  Viceversa non è affatto così. 

Anche quest’anno, dunque, “Buona Scuola” o no, centinaia di insegnanti originari del Sud non si sono presentati ad occupare le cattedre loro assegnate a Milano, mentre alle direzioni scolastiche della Sicilia sono arrivate 20mila domande di “assegnazione provvisoria” di insegnanti siciliani in servizio in scuole del Nord che vogliono tornare a casa. Quali che siano i sistemi che si possono escogitare nella speranza di eludere questi problemi, a provocarli è il fatto stesso della gestione verticistica e centralizzata della scuola. Una volta trovato un posto a Milano o a Torino, l’operaio siciliano che un tempo migrava al Nord non poteva nemmeno pensare, per pesante che per lui ciò fosse, di farsi poi trasferire in un’eventuale officina in Sicilia. 

L’insegnante siciliano di oggi, invece, può considerare il “riavvicinamento” non solo una possibilità, ma quasi un diritto. Analogamente, quali che siano i sistemi che si possono escogitare per valutare la qualità dell’insegnamento, è il fatto stesso della gestione verticistica e centralizzata della scuola a rendere impossibile un’adeguata selezione e valutazione dei docenti. Torniamo all’esempio del pane. Che cosa ci garantisce di poter disporre a buon prezzo di un buon pane secondo i nostri gusti? Il fatto che il panettiere sa che se non siamo soddisfatti del suo prodotto siamo liberi di andare in un’altra panetteria a comprare il pane da un panettiere più bravo di lui. Pensate, invece, che cosa succederebbe se il pane fosse prodotto dal servizio statale di panificazione organizzato dal ministero del Pane sotto la sorveglianza dell’Invalpi, Istituto Nazionale per la Valutazione del Pane Italiano…

Siamo arrivati al punto, insomma, in cui il monopolio statale della scuola pubblica semigratuita confligge non solo con la libertà d’educazione, ma anche con elementari esigenze di buona fornitura del servizio.  Il problema è che finora nessun governo ha avuto il coraggio di affrontare lo scontro cruciale con i grandi sindacati neo-corporativi del personale della scuola che una tale riforma implica. L’urgenza della rottura di tale monopolio è però ormai assoluta. Senza una scuola davvero buona non possiamo reggere il confronto con gli altri Paesi paragonabili al nostro e quindi veniamo spinti ai margini dello sviluppo. 

Osserviamo, poi, concludendo che in una situazione come quella italiana, in cui la stragrande maggioranza delle scuole è e resterà a lungo statale, la riforma non può che essere, tra l’altro, caratterizzata dalla concessione di un’autentica autonomia ad ogni scuola statale con tutto ciò che ne consegue, compreso il rischio di chiudere se non si raccolgono abbastanza allievi.