Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

ISLAM

Perché i Balcani sono diventati la riserva jihadista

Il peggioramento della situazione di guerra in Siria e Iraq ha contribuito ad aumentare l’interesse europeo per il fenomeno dello "jihadismo della porta accanto". Questi combattenti islamici provenienti dall’ex-Jugoslavia sono equiparati a quelli originari di altre zone del nostro Continente. Ma non è così.

Esteri 16_09_2014
Guerriglieri islamici dell'Isis

Il peggioramento della situazione in Siria e Iraq ha contribuito ad aumentare l’interesse europeo per il fenomeno dello "jihadismo della porta accanto", soprattutto per quello di origine balcanica. Sebbene il tema fosse già stato trattato negli anni scorsi, gli ultimi giorni hanno visto la proliferazione di articoli e servizi incentrati sui combattenti provenienti dall’ex-Jugoslavia, spesso equiparati a quelli originari di altre zone del nostro Continente. Tale paragone sembra quantomeno azzardato, poiché le peculiarità dell’area in questione la rendono a suo modo “speciale”. 

I Balcani, infatti, sono l’unica parte del Vecchio Continente in cui coesistono da secoli tre fedi diverse: il cattolicesimo, l’ortodossia e l’islam (presente in molte delle sue sfaccettature). Nonostante in molti dei lavori recenti sia stato sostenuto che la convivenza tra religioni sia stata sempre facile e improntata al rispetto reciproco, la storia dimostra il contrario, evidenziando secolari contrasti e diffidenze, soprattutto nei confronti dei bosgnacchi accusati, principalmente dai serbi, di aver tradito la fede abbracciando la religione dei turchi. Per meglio comprendere la complessità di queste relazioni, la cui bontà mutava col tempo, è sufficiente leggere i capolavori del Premio Nobel Ivo Andric o i lavori di Georges Castellan, ex professore dell’Iinalco di Parigi. 

In secondo luogo, la penetrazione dell’estremismo non è un fenomeno recente, tanto che sono note non solo la partecipazione di muhajidin stranieri alla guerra del ’92-’95, ma anche le relazioni intrattenute con i Fratelli Musulmani durante l’epoca socialista da parte di alcuni gruppi bosgnacchi più radicali. Di uno di questi, come scrive John R. Schindler, faceva parte anche l’ex Presidente bosniaco Alija Izetbegovic (padre di Bakir, attuale membro bosgnacco della Presidenza della Bosnia). Ciò detto, le recenti operazioni della polizia bosniaca e kosovara hanno contribuito a portare maggiormente alla luce la realtà dei fatti, dimostrando anche una qualche volontà del potere centrale di imporsi sull’estremismo. Le azioni intraprese, però, hanno scalfitto solamente lo strato superficiale del problema. Gli arresti compiuti dalle forze di Prishtina a metà agosto e quelli più recenti ordinati da Sarajevo, infatti, hanno portato in totale alla cattura di poco meno di 60 persone accusate di favorire il reclutamento e l’invio di combattenti in Siria ed Iraq. 

Questo numero, però, se paragonato alle stime secondo cui attualmente i volontari balcanici nel Levante sarebbero molte centinaia, fa capire che tali azioni non sono sufficienti a bloccare il fenomeno. Infatti, sebbene sia stata data grande importanza alla capacità di queste organizzazioni di sfruttare i social network e altri strumenti informatici per entrare in contatto con possibili nuovi adepti e pubblicizzare le proprie attività, l’aspetto realmente più decisivo è un altro. Queste reti estremiste, infatti, devono gran parte del loro successo alla grande capacità di sfruttare la situazione di difficoltà in cui si trovano Bosnia, Macedonia (caso peculiare), Serbia e Kosovo, i paesi dell’area (Albania esclusa) in cui maggiore è la presenza di musulmani. Per usare le parole di Darko Tanaskovic, ex ambasciatore jugoslavo in Turchia e Azerbaijan e ora professore all’Università di Belgrado, «la ragione per cui l’islam radicale sta diventando sempre più popolare nei Balcani è da ricercare nel vuoto creatosi dopo la caduta del regime socialista in Jugoslavia».

Sebbene possa sembrare strano e scarsamente accettabile dal punto di vista della morale occidentale, quanto detto dall’esperto risulta credibile, poiché la commistione fra politiche repressive e controllo della sfera religiosa riuscì a imbrigliare, almeno parzialmente, le spinte estremiste. Gli Stati più o meno democratici eredi della dittatura socialista, a causa della loro debolezza interna, della guerra e del pessimo andamento dell’economia non sono invece riusciti a trovare altri mezzi per limitare la proliferazione di centri di indottrinamento e reclutamento. Questi, per usare sempre le parole di Tanaskovic, «sono supportati, ideologicamente e finanziariamente, dai maggiori centri Islamici mondiali», e sfruttando al meglio il periodo dei conflitti in Bosnia e Kosovo e Metohija, sono riusciti a crearsi un vasto seguito, sebbene la popolazione locale fosse in gran parte moderata. Per fare ciò, le cellule estremiste hanno iniziato a sfruttare il diffuso malcontento causato dalla forte disoccupazione, fenomeno diffuso in tutta l’area, sostituendosi allo Stato sociale. In Kosovo, ma non solo lì, è cosa comune che questi centri donino somme di denaro alle famiglie in difficoltà: è implicito che, in cambio, venga richiesta l’adesione alla linea promossa dal gruppo. 

Ecco che quindi in molte realtà sono ricomparse donne velate e uomini con la caratteristica barba lunga o si sono moltiplicate le moschee gestite da chi pratica un islam diverso da quello storico e autoctono. Oltre a ciò, essi riescono a creare senso di appartenenza e orgoglio, a dispetto di realtà statuali spesso deboli e frammentarie. Questo è soprattutto il caso della Bosnia e del Kosovo, due entità formalmente indipendenti, ma in realtà soggette a forte influenza esterna. Proprio questo aspetto sembra dimostrare che il comportamento occidentale nei confronti di queste nazioni è stato superficiale. Per molti anni si è privilegiato un atteggiamento euro-centrico, sostenendo soluzioni adatte agli interessi di Bruxelles (o, meglio, di alcuni degli stati membri della Ue), senza prendere realmente in considerazione le esigenze locali. Questo ha fatto sì che gli Stati esistenti non riuscissero a uscire dal tunnel, restando irrimediabilmente indietro rispetto al resto del Continente. 

Sebbene la Serbia sembri un serio candidato all’ingresso nell’Unione, ad esempio, essa è in forte crisi economica, ha difficoltà a gestire la sempre più attiva minoranza musulmana (che fornisce spesso combattenti per il Jihad) e vede indebolita la sua posizione nell’area, resa più precaria dal tentativo di bilanciare l’interesse per l’Europa e lo storico legame con Mosca. Questa situazione le impedisce quindi di contrastare con decisione il fenomeno, rischiando anche di diventare un interessante obiettivo degli Stati maggiormente attivi nel presentarsi come difensori dei diritti dei musulmani balcanici (Turchia su tutti). 

Complessa è anche la situazione in Macedonia, Paese che fino a pochi mesi fa sembrava sull’orlo di veder divampare veri e propri scontri a carattere etnico-religioso. Sebbene l’economia stia dando risultati migliori di quelli degli stati vicini, Skopje non può stare ancora tranquilla, poiché il crescente malcontento della minoranza albanese rischia concretamente di saldarsi con l’aspetto religioso, aumentando il rilievo che già hanno alcuni gruppi radicali. Certo è che per il governo è difficile, come ha suggerito qualcuno, controllare la situazione, soprattutto perché il numero delle moschee è in continua crescita con un aumento di 350 unità nell’ultimo decennio. Tralasciando in questa sede il Kosovo, di cui si è già scritto sopra e di cui sono noti i problemi storici, è invece interessante lo stato in cui versa la Bosnia, territorio da sempre molto importante per gli interessi Europei. Malgrado le aspettative sviluppatesi dopo il conflitto inter-confessionale degli anni ’90 (risulta poco credibile parlare di differenze etniche fra bosgnacchi e serbi quando la distinzione viene basata essenzialmente sulla fede professata) il Paese non è riuscito a trovare la coesione interna e il sogno della piccola Jugoslavia si è scontrato violentemente con la realtà. Tutti e tre i gruppi principali del Paese (cattolici, musulmani e ortodossi) sono scontenti della soluzione attuale e, soprattutto, dell’amministrazione centrale, che viene vista in termini estremamente negativi. Ciò che colpisce è che, nonostante tale situazione, le rivendicazioni a carattere “nazionale” continuano ad avere grande fortuna nelle due parti del Paese, contribuendo ad affossarlo ulteriormente. 

In questa situazione poco invidiabile si sono inseriti perfettamente i gruppi dell’estremismo islamico, che possono contare anche su una situazione economica disastrosa, su una povertà diffusa e sull’apparente disinteresse dell’Europa. Il risultato è evidente: già qualche anno fa il direttore dell’Agenzia di Informazione e Sicurezza (Osa) aveva dichiarato che nel Paese vi erano almeno 3000 persone “interessanti” a causa dei loro legami con l’islamismo radicale. Come sottolinea Slobodan Durmanovic del think-tank Nspm, nonostante l’approvazione di una legge che colpisce chi si reca a combattere all’estero, il fenomeno preoccupa non solo gli esperti locali, ma anche quelli tedeschi e austriaci, poiché gli jihadisti di questi Paesi hanno spesso contatti in Bosnia, Paese da cui è possibile viaggiare low-cost fino alla Siria: il costo del viaggio Sarajevo-Istanbul-Gaziantep, infatti, è di soli 100 euro.

Questa tratta spaventa anche la Croazia, paese che, a suo scapito, secondo le ricostruzioni del Jutarnji List si trova ad essere la prima tappa di numerosi combattenti europei diretti verso la capitale bosniaca per poi unirsi alle forze anti-Assad o a quelle impegnate a combattere i Curdi. Le preoccupazione di alcuni esperti, poi, sono aggravate da altri due fattori: il primo è legato allo stretto rapporto con gli Stati Uniti, che ha portato Zagabria ad armare alcune delle fazioni in lotta e che si teme possa rappresentare un problema per la sicurezza nazionale. Il secondo, invece, è di carattere più generale e dipende dal fatto che, per la prima volta, anche dal Montenegro giungono segnali inquietanti circa il ruolo dei reclutatori wahabiti fra le minoranze bosgnacche e albanesi del Paese. 

Alla luce di tutto ciò, sembra che questo sia quindi il momento più opportuno per l’Europa per aiutare concretamente questi Paesi, dai quali dipende in parte la lotta alle reti dell’estremismo islamico nel nostro Continente, e, nel contempo, limitare altre richieste e pressioni che rischiano soltanto di far percepire Bruxelles come un interessato e potente vicino pronto a chiedere senza essere disposto a contraccambiare.