Perché è giusto respingere le richieste di risarcimento per la schiavitù
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Nel vertice del Commonwealth, alle isole Samoa, torna la vecchia proposta di risarcimento dei discendenti delle vittime della tratta degli schiavi. Il premier Starmer rifiuta e ha ragione. Per motivi anche storicamente fondati.
È in corso nelle Isole Samoa e si concluderà il 26 ottobre la riunione dei capi di governo dei 56 paesi che costituiscono il Commonwealth. Il tema proposto per l’incontro è Un futuro comune resiliente. Ma non è solo al futuro che i convenuti, o almeno una parte di essi, vorrebbero guardare. La commissione per le riparazioni della Comunità caraibica (Caricom) aveva infatti deciso di riproporre in questa sede la questione dei risarcimenti ai paesi africani chiesti alla Gran Bretagna per riparare ai danni e ai torti causati dalla tratta transatlantica degli schiavi.
La presidente della Caricom Hilary Beckles, nell’annunciarlo, aveva detto di confidare nel fatto che, dopo 14 anni di governi conservatori che avevano sempre rifiutato di prendere in considerazione la richiesta, dallo scorso luglio un leader laburista, Keir Starmer, è alla guida del Regno Unito. Invece le aspettative di chi sperava in un atteggiamento diverso sono andate deluse. Starmer, come i suoi predecessori, non sembra intenzionato ad affrontare la questione. Ha rifiutato di parlarne durante il vertice, limitandosi a dare la sua disponibilità a confrontarsi con i leader che lo desiderano. «Voglio discutere – ha detto – delle sfide attuali e future, non del passato».
Tuttavia la commissione della Caricom non si è data per vinta e con lei i sostenitori convinti della necessità di fare giustizia. È stata preparata una bozza di comunicato in cui si dice: «i capi di governo, prendendo atto delle richieste di discussione sulla giustizia riparativa in relazione alla tratta transatlantica di schiavi africani e alla schiavitù … hanno convenuto che è giunto il momento di un dialogo concreto, sincero e rispettoso al fine di costruire un futuro comune fondato sulla equità». Intervistato dalla Bbc, il ministro degli esteri delle Bahamas, Frederick Mitchell, si è detto sicuro che «una volta affrontato l’argomento, potrebbe volerci un po’ prima che si cambi idea, ma alla fine si cambierà». La discussione, ha commentato, si riproporrà tra due anni al prossimo vertice del Commonwealth che si terrà nei Caraibi, forse ad Antigua e Barbuda. Nel frattempo altre ricerche verranno svolte che aggiungeranno elementi a sostegno delle accuse formulate e delle richieste espresse.
L’importanza attribuita alle rivendicazioni di giustizia ripartiva è stata ribadita dal primo ministro delle Bahamas, Philip Davis: «la richiesta non è solo di risarcimenti finanziari. Non si tratta di questo. Quel che si chiede è di riconoscere che secoli di sfruttamento hanno avuto un impatto che dura nel tempo e di garantire che il retaggio della schiavitù venga affrontato con onestà e integrità». Non sarà questione di risarcimenti finanziari, ma se le richieste venissero accettate e in qualche modo il danno fosse quantificato, la sola Gran Bretagna si troverebbe a dover far fronte a risarcimenti per il valore di miliardi di sterline, e con lei gli altri Stati che hanno preso parte al traffico che per circa quattro secoli ha trasferito nelle Americhe circa 12 milioni di africani. I danni infatti non si limiterebbero al numero di persone sottratte al continente perché la tratta transatlantica – così si dice – ha contribuito a determinare le attuali persistenti ed estese disuguaglianze razziali.
Risarcire e dichiararsi ufficialmente colpevoli. La prima volta che simili rivendicazioni sono state formulate è stato nel 2001, alla Conferenza mondiale contro il razzismo organizzata dalle Nazioni Unite. Ai rappresentanti degli stati membri dell’Onu fu chiesto di sottoscrivere un testo, redatto dalla Commissione ONU per i Diritti Umani in cui gli Stati occidentali e in particolare quelli del G7 venivano accusati di essere “plasmati da secoli di razzismo”, causa e al tempo stesso effetto dello schiavismo e dell’imperialismo coloniale. Si voleva quindi che i paesi denunciati riconoscessero formalmente di essersi macchiati di crimini contro l’umanità, esprimessero il loro rincrescimento, porgessero scuse ufficiali per i danni materiali e morali arrecati e ammettessero di dover risarcire sia i discendenti degli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi sia i paesi africani danneggiati dallo schiavismo e dalla colonizzazione europei.
Il testo in questi termini non fu approvato, ma da allora periodicamente la questione dei danni e dei risarcimenti viene riproposta e negli ultimi anni ha trovato sempre maggior sostegno. Nel 2023, il 25 marzo, in occasione della Giornata internazionale in ricordo delle vittime della schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi, il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha parlato delle conseguenze a suo dire attuali della tratta: «l’eredità della tratta transatlantica degli schiavi ci perseguita ancora oggi – ha detto – Possiamo tracciare una linea retta dai secoli di sfruttamento coloniale alle disuguaglianze sociali ed economiche di oggi. E possiamo riconoscere i cliché razzisti resi popolari per razionalizzare la disumanità della tratta degli schiavi nell’odio suprematista bianco che sta rinascendo oggi». Poi a luglio il vertice di Bruxelles dell’Unione Europea e dalla Celac, Comunità di Stati latinoamericani e dei Caraibi, ha messo a punto un piano di riparazioni in dieci punti che include l’esortazione ai paesi europei a chiedere formalmente scusa per la tratta degli schiavi e prevede tra l’altro un programma di rimpatrio assistito per gli afroamericani che desiderano trasferirsi in Africa.
A settembre è stato di nuovo Guterres a ritornare sull’argomento durante l’annuale Assemblea Generale delle Nazioni Unite distribuendo un rapporto nel quale si deplorava che ancora nessun paese avesse risposto all’appello a riparare ai torti fatti. Infine un contributo decisivo all’avvio di passi concreti per ottenere i risarcimenti reclamati è venuto dal presidente del Ghana Nana Addo Akufo-Addo che lo scorso novembre nella capitale del paese Accra ha ospitato un vertice internazionale intitolato “Reparation Conference” il cui scopo era “costruire un fronte unito per promuovere la causa della giustizia e del pagamento dei risarcimenti agli africani”. Al termine dei colloqui i delegati hanno deciso la costituzione di un Global Reparation Fund, un Fondo di riparazione globale, che sarà affiancato da un Comitato di esperti istituito dalla Commissione dell’Unione Africana in collaborazione con i paesi africani. L’obiettivo è che si vada oltre ai pagamenti finanziari diretti per includere anche degli aiuti allo sviluppo, la restituzione delle risorse sottratte in epoca coloniale e la correzione sistematica delle politiche e delle leggi oppressive che penalizzano i discenti degli schiavi africani.
I motivi per rifiutare di risarcire e chiedere scusa sono tanti. Quando Guterres parla, ad esempio, di 25-30 milioni di africani deportati, dimentica di dire che oltre la metà – da 14 a 17 milioni – furono catturati o acquistati dai mercanti arabi che per 13 secoli hanno organizzato la tratta arabo-islamica di schiavi africani, deportati nei paesi arabi attraverso l’oceano Indiano. Ma nessuno formula le stesse richieste ai paesi arabi, non esiste neanche una giornata mondiale che ricordi quelle vittime.
In termini pratici, inoltre, determinare l’entità dei danni economici provocati è praticamente impossibile, ma il problema si supererebbe acconsentendo a un flusso inesauribile di doni e finanziamenti. Risulta altresì assai difficile, come ha ammesso lo stesso Segretario dell’Onu Guterres, identificare gli autori, i responsabili della tratta. Anche in questo caso però, Guterres ha omesso di spiegare, e come avrebbe potuto, che la tratta atlantica sarebbe stata impossibile, se non altro nelle dimensioni assunte, senza la partecipazione degli africani stessi che si sono prestati a catturare e consegnare ai mercanti europei quei milioni di africani e che lo hanno fatto in cambio di denaro.
Gli schiavi diretti nelle Americhe venivano acquistati. Così come adesso neanche un barile di petrolio né un sacchetto di diamanti né una zanna di elefante lasciano l’Africa senza essere pagati, allora gli uomini, le donne, i bambini africani hanno lasciato il continente venduti da altri africani.