Perché credere è cosa da uomini davvero ragionevoli
Riconoscersi creatura
«a immagine e somiglianza di Dio» non comporta la sottomissione spersonalizzante. Al contrario,
la dimensione creaturale libera
la persona, dispensandola dal conformarsi a modelli ideologici che nel distruggono l’umanità.
Proponiamo una pagina dal libro Credere per vedere. Riflessioni sulla razionalità della Rivelazione e l’irrazionalità di alcuni credenti (Lindau, Torino 2012, pp. 280, €24,00) di Jean-Luc Marion, francese, filosofo e storico della filosofia, docente alla Sorbona e all'Università di Chicago.
Oggi, la funzione della Chiesa cattolica potrebbe riconoscersi in questo: rendere manifesto che solo Dio può donare all’uomo l’occasione di ritornare - in primo luogo - all’uomo stesso, dandogli la possibilità di somigliare a niente meno di Dio stesso.
Che l’uomo si riconosca creato «a immagine e somiglianza di Dio» non implica la sua sottomissione a qualche essenza rigidamente definita (che limiterebbe la sua libertà, secondo l’inconsistente controsenso sartriano), ma al contrario lo libera e lo dispensa da doversi conformare ai modelli ideologici, che distruggono l’umanità dell’uomo. Infatti, se l’uomo assomiglia a Dio, non somiglia a niente di conosciuto, poiché Dio si definisce proprio per la sua inconoscibilità: «Dunque, poiché, tra ciò che contempliamo della natura divina, vi è l’inconcepibilità della sua essenza, bisogna necessariamente che ogni icona conservi, anche sotto questo aspetto, una similitudine con l’archetipo […]. Poiché la natura, in ciò che concerne il nostro spirito, che è a immagine del Creatore, si limita alla conoscenza, essa conserva dunque esattamente la sua somiglianza con il suo modello superiore, che segna la natura inconoscibile con un’immagine in sé inconoscibile».
Dio non fornisce l’uomo di un’essenza fissa e chiusa come le cose o gli animali; Dio gli dà l’inconoscibilità stessa che lo libera da ogni definizione; portare l’immagine della somiglianza di Dio significa - secondo Gregorio di Nissa - escludersi da ogni conoscenza riduttiva, quindi liberarsi da ogni idolo che l’uomo potrebbe produrre di Dio e, contemporaneamente, di se stesso. L’inconoscibilità segna la libertà inalienabile di Dio e, conseguentemente al dono che Egli compie nella creazione, dell’uomo. Così molti teologi ritengono (con san Bernardo) che la libertà della creatura (libertas arbitrii), donata con l’immagine originale, non può essere mai perduta. L’uomo non conserva l’immagine di Dio come uno schiavo porta un numero di matricola, come un prodotto l’etichetta di fabbricazione, un dato, un codice; egli mantiene quest’immagine come un quadro mostra, su tutta la sua superficie, lo stile, il tocco e il talento del pittore, che lo rende immediatamente riconoscibile da un intenditore: «È un…!» - in questo senso, bisogna dire dell’uomo che «è un Dio!», tanto ne porta il segno indelebile.
L’immagine che egli conserva di Dio non va confusa col suo proprio volto, non più di quanto un ritratto di Cézanne cessi di essere innanzitutto un ritratto di sua moglie, di Vollard o di un paesano; l’immagine e la somiglianza si attestano in ciò che l’uomo, irriducibilmente se stesso, rinvia, attraverso la perfezione propria del suo volto, a una gloria che lo onora e lo inonda, senza neppure che egli la conosca, la provochi, né la noti. L’uomo esercita così una libertà razionalmente incomprensibile che, proprio perché non corrisponde a nulla di ciò che l’uomo conosce, mette effettivamente in pratica l’incomprensibile, e testimonia naturalmente la gloria dell’Incomprensibilità in persona. Dio rende all’uomo della postmodernità il servizio (per non dire la grazia) di donargli non tanto una nuova definizione di se stesso, che si confonde con le innumerevoli verità ideologiche il cui sinistro e confuso scontro sommerge il mondo di orrore derisorio, quanto la rivelazione della sua essenziale inconoscibilità, segno della sua libertà, sigillo della sua creazione. Dio dona così all’uomo la possibilità di superare tutto ciò di cui non potrà mai avere la minima idea - perché la più grande idea sarà sempre minore del riconoscimento di ciò che sfugge alla nostra capacità di produrre delle idee. L’uomo non torna a se stesso che pervenendo all’Inconoscibile.
Chiediamo: il cattolicesimo, cioè i cristiani uniti dalla Chiesa cattolica, come possono oggi aiutare la società civile a sopravvivere e a rafforzarsi? Una risposta sembra acquisita, almeno abbozzata: essi devono vigilare sull’inconoscibile. Né difensore di un partito fra tanti, né depositario di una scienza in concorrenza con le altre, il cattolico dice che l’uomo, io, il mio prossimo, non può essere conosciuto come un oggetto, mediante un ideale o un idolo, ma che egli riceve se stesso, definitivamente inconoscibile, come un dono del Dio per sempre inconoscibile.
Questa risposta si espone tuttavia a un’obiezione inevitabile: l’enunciare che l’uomo non si può conoscere si confà, nel migliore dei casi, a un’omelia, ma non contribuisce a chiarire o arricchire il reale dibattito concettuale. E così come l’agnosticismo a proposito di Dio, nonostante un aspetto pio, finisce per favorire le varie forme di ateismo, allo stesso modo, se applicato all’uomo, potrebbe autorizzare i peggiori lassismi. In realtà, avremmo delle difficoltà, se pensassimo di enunciare una nuova tesi - «l’uomo, questo sconosciuto», «l’uomo inconoscibile» -, tra altre possibili - «l’uomo neuronale», «l’uomo libidico», «l’uomo strutturale» ecc. Non è questa la funzione dei cattolici, guardiani dell’inconoscibile; essi non propongono un nuovo slogan per il mercato delle idee, anche scientifiche; essi impongono una norma a tutti i discorsi che si pongono oggi come antropologici. Un discorso può dimostrare che un certo organo del corpo degli uomini soddisfa un certo modello, esso stesso improntato a una scienza materiale (per quanto strana e «spirituale» sia questa materia): ma è ben altra cosa, toto caelo differente, pretendere che tale analisi concerna, per poco che sia, qualcosa come l’uomo; il più delle volte, il passaggio da un caso all’altro corrisponde solo a una constatazione negativa: se si contraddice il modello materiale scoperto, involontariamente (malattia) o volontariamente (uccisione), di fatto, ciò che muore è, era un uomo.
Questa prova negativa conferma ciò che sappiamo da molto tempo: la conoscenza, applicata all’uomo come a un oggetto, finisce quasi infallibilmente per ucciderlo. Ma l’inverso non si stabilisce così facilmente: probabilmente, l’anima non compare grazie ad alcun scalpello, scanner o analisi; ma non vi è nulla di cui gioire; perché l’anima esiste, prima che la si condanni a morte; e più conosciamo ciò che abbandona o ciò che domina, meno la conosciamo davvero. Non appena parla un medico, un biologo, uno psicologo, un etnologo ecc., è opportuno adottare un doppio atteggiamento: in primo luogo ascoltarlo, per informarsi, e poi comprendere in cosa non si tratta dell’uomo. I problemi antropologici non si decidono in termini di sapere positivo, ma in termini di diritto (giuridicamente, filosoficamente): in futuro, dovremo decidere di ciò che non si deve applicare agli uomini, tra le possibili tecniche; questa sfida rischiosa potrà essere vinta se avremo compreso innanzitutto che l’uomo non si conosce, e che lo si rispetta soltanto se non si autorizza qualunque tecnoscienza a trattarlo come se l’inconoscibilità fosse un segno del suo valore intrinseco.
L’inconoscibilità dell’uomo è un fatto - un fatto teorico constatato, suo malgrado, dalla postmodernità -, ma è un fatto che esige un diritto che lo difenda, poiché noi non lo produciamo nell’effettività, ma lo riceviamo come un dono. Il proprio dell’uomo è di sapere di non essere nulla oltre ciò che ha ricevuto; egli ha ricevuto il dono di essere così radicalmente che essere per lui corrisponde senza riserve a riceversi. Originariamente, l’uomo è in debito con se stesso 6. Questo debito non dev’essere né rimborsato, né deve pesare come una maledizione; esso non chiede che essere riconosciuto. Non conosciuto, ma riconosciuto – accettato come un dono. Ecco perché dobbiamo – è un comandamento del Cristo – amare noi stessi, altrimenti non perdoneremo mai, non perdoneremo nulla e saremo al tempo stesso omicidi e suicidi. Imparare a riconoscersi come essenti nel modo del dono, ecco ciò che i cristiani uniti nella Chiesa cattolica hanno come proprio compito seguendo l’imitatio Christi che fa loro compiere in se stessi la somiglianza all’inconoscibile. Ma potrebbe anche darsi che questo solo e unico dovere definisca, come tale, il loro apporto più prezioso e più insostituibile al destino della nostra comune società civile.
Perché ecco arrivare il tempo in cui, per rimanere un uomo, bisognerà volerlo, e in cui, per volerlo davvero, occorrerà poterlo. E in quest’urgenza, tutti i mezzi sono buoni, uno vale l’altro – anche il dono di Dio.