Perché a Lincoln non sarebbe piaciuto Obama
«Sono favorevole», diceva il presidente bianco che non liberò i neri, «al ruolo di superiorità che deve svolgere
la razza a cui appartengo».
Quella che tutti chiamano Guerra civile (1861-1865) degli Stati Uniti d’America fu anzitutto assai incivile, ma soprattutto non venne scatenata per liberare gli schiavi neri. Semmai questo fu uno dei motivi del conflitto, e però nemmeno quello principale.
La guerra fu invece un "dibattito in armi" sulla natura della Costituzione federale per stabilire se il Paese dovesse continuare a mantenere l’assetto politico-istituzionale-culturale originario (decentrato, federalista, ispirato al principio di sussidiarietà, e in buona parte erede della tradizione giuridica e civile europea) oppure trasformarsi in un nuovo soggetto centralistico plasmato da un neogiacobinismo di ritorno che, assente fra i protagonisti dell’alba della repubblica statunitense, si era fatto sornionamente strada lungo l’Ottocento per poi esplodere virulento negli stessi anni in cui in Italia esplodeva - secondo una logica cugina, lo ricordò il beato papa Pio IX (1792-1878) esprimendo solidarietà all’ingiustamente incarcerato presidente della Confederazione "sudista" Jefferson Davis (1808-1889) - il cosiddetto Risorgimento.
Sia in Italia sia negli Stati Uniti, i difensori dell’ordine anti-illuminista stavano nel Meridione: nel regno delle Due Sicilie da noi, negli Stati Confederati d’America - i "sudisti" - da loro. Oltreoceano la situazione veniva certo complicata molto - talora troppo - dalla questione della schiavitù, ma degli schiavi neri ai "nordisti" in genere interessava poco, meno ancora ad Abraham Lincoln (1809-1965).
Solo quando si rese conto di non potere più fare a meno dell’appoggio dell’ala abolizionista - li chiamavano Radicali - del Partito Repubblicano di allora Lincoln si decise a giocare la carta dei neri, sfruttandone le evidenti virtù propagandistiche.
«Se ci fosse», scrisse Lincoln nel 1862 (a guerra iniziata) con parole citate in ogni bigino, «chi non desidera salvare l’Unione, a meno di non potere allo stesso tempo salvare la schiavitù, io non sarei d’accordo con costoro. Se ci fosse chi non desidera salvare l’Unione a meno di non poter al tempo stesso sconfiggere la schiavitù, io non sarei d’accordo con costoro. Il mio obiettivo supremo in questa battaglia è di salvare l’Unione, e non se porre fine o salvare la schiavitù. Se potessi salvare l’Unione senza liberare nessuno schiavo, io lo farei; e se potessi salvarla liberando tutti gli schiavi, io lo farei; e se potessi salvarla liberando alcuni e lasciandone altri soli, io lo farei anche in questo caso. Quello che faccio al riguardo della schiavitù, e della razza di colore, lo faccio perché credo che aiuti a salvare l’Unione; e ciò che evito di fare, lo evito perché non credo possa aiutare a salvare l’Unione».
Tanto è vero che Lincoln non mosse un dito per gli schiavi sino a ben due anni dopo l’inizio della guerra: solo il 1° gennaio 1863 fu infatti reso pubblico il Proclama di emancipazione. Per molti e lunghi mesi di quella carneficina, cioè, la schiavitù praticata dai "sudisti" rimase perfettamente legale anche agli occhi dei "nordisti". Ma la questione ancora più scottante è che nemmeno il Proclama di emancipazione liberò un solo schiavo. Esso venne infatti emanato da quel governo degli Stati Uniti che però il governo degli Stati Confederati secessionisti evidentemente non riconosceva e aveva vigore di legge - con tanto di enforcement da parte delle agenzie governative - solo su territori da cui per definizione il Sud dei "sudisti" era escluso.
Propaganda, appunto. Del resto il pensiero di Lincoln in proposito non era un segreto per nessuno. Ampia antologia ne è lo "scorrettissimo" ma prezioso volume The Real Lincoln: A New Look at Abraham Lincoln, His Agenda, and an Unnecessary War (Forum, New York) pubblicato nel 2002 da Thomas J. DiLorenzo - docente di Economia alla Loyola University Maryland, l’università dei gesuiti di Baltimora, e membro anziano del Ludwig von Mises Institute di Auburn, in Alabama -, uscito nel 2003 in una seconda edizione arricchita di una ampio capitolo in cui vengono confutate le facilmente immaginabili critiche piovute addosso all’autore e in entrambi i casi impreziosito da una premessa firmata da Walter E. Williams, economista di vaglia e nero americano discendente dagli schiavi di allora.
Il 21 agosto 1858, prima della elezione alla Casa Bianca, prima della Guerra "civile", nel corso di un dibattito pubblico svoltosi a Ottawa, in Illinois, Lincoln già disse quel che dirà di fronte ai primi morti "nordisti" e "sudisti": «Non miro affatto a introdurre l’eguaglianza sociale e politica fra la razza bianca e la razza nera. Fra le due vi è una differenza fisica che, a mio avviso, impedirà per sempre che esse vivano assieme in condizioni di eguaglianza perfetta; e nella misura in cui diviene una necessità [...], sono favorevole al ruolo di superiorità che deve svolgere la razza a cui appartengo. Non ho mai detto il contrario».
E quando qualcuno chiese al futuro presidente degli USA cosa si sarebbe dovuto fare degli schiavi che un giorno sarebbe stati liberati (ma, appunto, non dal Proclama di emancipazione del 1863), Lincoln rispose: «Mandateli in Liberia, nella loro terra natìa». Questo perché nel Paese i progetti di “deportazione pacifica” si rincorrevano (all’uopo era attiva l’American Colonization Society). Una volta insediatosi alla presidenza, Lincoln firmò del resto un contratto con un uomo di affari, tale Bernard Knock, allo scopo di fondare una colonia di “deportati” ad Haiti (il progetto fallì perché Knock era inaffidabile) e alla Casa Bianca incontrò alcuni dei responsabili della comunità nera implorandoli di mettersi alla testa di un movimento di colonizzazione a ritroso verso l’Africa, idea che peraltro il presidente ripeté solennemente nel messaggio annuale inviato al Congresso il 1° dicembre 1862.
Lincoln i neri negli Usa proprio non li voleva. Voleva al massimo impedire che la schiavitù venisse estesa ai territori di nuova acquisizione statunitense. Già il 16 ottobre 1854 aveva detto: «L’intera nazione è interessata a fare di quei territori il miglior uso possibile. Vogliamo che essi siano la casa dei bianchi liberi». E nel Discorso d’insediamento alla presidenza nel 1860 dichiarò: «Non ho alcuna intenzione, diretta o indiretta, d’interferire con l’istituzione della schiavitù negli Stati in cui essa esiste».
Al Segretario di Stato William H. Seward sr. (1801-1872), ebbe peraltro occasione di dire: «Chi protesta contro l’estensione della schiavitù è sempre stato in realtà spinto dall’obiettivo del benessere dei bianchi, non dall’innaturale simpatia verso i negri». L’idea infatti di avere dei neri liberi che si mettessero a intraprendere sul piano economico, agricolo e industriale sottraendo ricchezze ai bianchi in territori ancora vergini e potenzialmente forieri di ricchezze era insopportabili per i "nordisti".
A fianco dei "sudisti", invece, nel corso di quella terribile Guerra che non servì per liberare gli schiavi ma per ribaltare gli assetti della res publica nordamericana, scesero in campo persino battaglioni di soli effettivi ebrei, con tanto di rabbino al seguito, di latinos (in Texas ne nacque anche una mini-Confederazione locale, confederata alla Confederazione maggiore), nonché di nativi cherokee (come tra l’altro mostra pure Il texano dagli occhi di ghiaccio, film diretto e interpretato nel 1976 da Clint Eastwood).
Oltreoceano non è scomparsa la memoria di nomi quali John Drew - che Capo John Ross nominò colonnello del 1st Cherokee Mounted Rifles, un reggimento "sudista" tutto indiano - e di Ta-ker-taw-ke, battezzato Isaac Stand Watie (1806-1871), generale di brigata della Confederazione, l’ultimo ufficiale ad arrendersi il 23 giugno 1865, due mesi dopo la resa del generale supremo dei Confederati, Robert E. Lee (1807-1870), in Virginia.
Né dei reparti militari costituti esclusivamente da volontari neri. La storiografia ne conserva addirittura le foto. E nel monumento ai Confederati, progettato dallo scultore Sir Moses Jacob Ezekiel (1844-1917), Confederato ebreo che a lungo visse e lavorò a Roma, monumento eretto nel 1908 e visitabile da tutti all’Arlington National Cemetery - segno evidente di una riconciliazione nazionale difficile come lo sono tutte ma concreta -, là dove sta pure la tomba di John F. Kennedy (1917-1963), le formelle mostrano inequivocabilmente a chiunque, americani e non, il volto di quei soldati neri del Sud che ipso facto la libertà se la guadagnarono scegliendo di dare la propria vita contro certi presunti "liberatori".