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Penelope, la paura di una donna di essere abbandonata

Nelle Heroides Ovidio concede la parola a Penelope che sta attendendo fedelmente Ulisse da tanti anni. Ovidio con l’acutezza psicologica che gli si deve riconoscere rivela che la paura più profonda di una donna è quella di essere abbandonata. 

Cultura 06_01_2019

Nella tradizione letteraria greca grandi eroi hanno spesso combattuto per la patria con la loro forza erculea, abbinata ad una grande virtù d’animo. Così nell’Iliade, poema omerico dedicato alla guerra degli Achei contro Troia, ci appaiono Achille, eroe fortissimo, imbattibile, con la sola debolezza del tallone, e Aiace Telamone, il secondo più grande nel campo greco, colui al quale erano destinate le armi di Achille dopo la morte, armi che gli furono, però, sottratte con l’inganno da Ulisse. Quest’ultimo è il personaggio greco che ha più prolungato la sua fama nei secoli successivi fino ad oggi, fino alle rivisitazioni di Joyce e Pascoli o alle sceneggiature cinematografiche. Dante incontra Ulisse nell’ottava Bolgia dell’Inferno, dannato per le sue menzogne, non per il suo valore di uomo di mare, che è emblema del desiderio umano di conoscenza. 

La fama di quest’eroe così duratura fino alla Modernità è forse legata al fatto che Ulisse incarna atteggiamenti per così dire già moderni, improntati a furbizia, individualismo, intelligenza, pragmaticità. È l’emblema stesso dell’ingegno, ma, nel contempo, della capacità di sopportazione, della forza militare, della curiosità, della diffidenza, della pazienza. 

È la figura «più ricca di umanità che la poesia greca abbia creato, nella sua ricchezza singolarissima di prudenza e di coraggio, di curiosità e d’intelligenza, di generosità impetuosa e di calcolata freddezza, di lucidità e di cautela, di prontezza sicura e di ostinazione, di fiducia e di dubbio, di caldissima e mobilissima astuzia» (Bosco-Reggio).

Per dieci anni Ulisse ha combattuto a Troia fino a quando grazie all’inganno del cavallo permette ai compagni greci di entrare all’interno delle mura della città e di espugnarla. 

Per altrettanti anni, perseguitato dall’ira di Poseidone, Ulisse vaga per il Mar Mediterraneo. Tante sono le tappe prima del suo ritorno («nostos»), tante le prove che l’eroe dovrà superare: come dimenticare il gigante Polifemo oppure l’insidia della Maga Circe che ha trasformato tutti i suoi compagni in porci o ancora il canto seducente e ammaliante delle sirene. Alla fine, dopo vent’anni, Ulisse fa ritorno ad Itaca, uccide i Proci che insidiano la moglie e, infine, riabbraccia Penelope e il figlio Telemaco.

Nelle Heroides Ovidio concede la parola a Penelope che lo sta attendendo fedelmente da tanti anni. La donna non vuole una riposta tramite una lettera, ma, «rimasta nel gelo di un letto vuoto e abbandonata», desidera rivedere di persona il marito, presa ancora da un amore «permeato di paure angosciose».

Penelope ricorda con che apprensione viveva le notizie che provenivano dalla lontana Troia: 
Alla fine, chiunque venisse sgozzato in campo Acheo, il mio cuore di innamorata diventava più freddo del ghiaccio. Ma un dio di giustizia venne in aiuto al mio casto amore: Troia è ridotta in cenere, mio marito è salvo. I capi argolici sono ritornati, gli altari fumano, il bottino dei barbari viene offerto agli dèi dei nostri padri; le giovani spose portano doni di ringraziamento per la salvezza dei mariti, ed essi cantano i destini di Troia, vinti dai loro destini. I vecchi saggi e le fanciulle trepidanti sono in ammirazione, la sposa pende dalle labbra del marito che racconta. 

Penelope rinfaccia ad Ulisse di aver osato troppo nella guerra, dimentico dei suoi cari, come quando è entrato nell’accampamento nemico di notte e ha trucidato «con l'aiuto di un solo compagno tanti guerrieri». La donna si avvale allora dell’ironia: “Eri davvero prudente e ti preoccupavi anzitutto di me!». Grande è la gioia di Penelope quando giunge la notizia della distruzione della città di Troia, ma il sentimento perdura poco nel suo cuore, perché Ulisse non fa ritorno e Penelope continua a sentire la mancanza dello sposo «sempre assente». Penelope scrive:

Tu, che pure sei vincitore, te ne stai lontano e non mi è dato sapere quale sia la causa del ritardo o in quale parte del mondo tu, crudele, te ne stia nascosto. […] In quali terre vivi, o dove indugi lontano?

L’indagine psicologica condotta da Ovidio è profonda. Ciò che si conosce può generare paura, l’incognito può, invece, partorire l’angoscia: sarebbe meglio per Penelope che la guerra contro Troia non fosse finita e sapere che Ulisse si trovi ancora a combattere in modo tale da conoscere il nemico («saprei dove combatti e avrei timore solo della guerra ed il mio lamento si unirebbe a molti altri»). Ora, invece, Penelope non conosce il suo nemico, ha «paura di tutto». Ma la paura principale, ancor maggior della guerra, è che il marito possa trovarsi con una straniera. Penelope teme che il cuore di Ulisse possa essere di un’altra donna:
Mentre sono in preda a sciocchi timori, tu puoi essere preso dall'amore per una straniera - tale è l'indole vogliosa di voi uomini! Forse le racconti anche quanto è zotica tua moglie, buona soltanto a cardare la lana. Possa io ingannarmi e questo sospetto svanisca nell'aria leggera, e non avvenga che tu, libero di tornare, voglia restare lontano! 

L’uomo è volubile, a detta di Penelope, cade facilmente nell’infedeltà. Penelope si considera, invece, «sempre la sposa di Ulisse», nonostante il padre Icario la sproni ad abbandonare il letto vuoto e a convolare a nuove nozze («Sono tua, devo essere considerata tua») e i pretendenti provenienti da Dulichio, da Samo, da Zante e da tanti altri luoghi incalzino, senza che nessuno si opponga a loro.

Penelope conclude la lettera con un tono affettuoso ricordando al marito le tre figure che lui dovrebbe avere più care:
Siamo tre di numero, indifesi: una donna senza forze, un vecchio, Laerte, un ragazzo, Telemaco. Quest'ultimo, di recente, per poco non mi è stato strappato con un tranello, mentre si preparava a recarsi a Pilo, contro il volere di tutti. Vogliano gli dèi, li imploro, che secondo il corso naturale del destino, sia lui a chiudere i miei occhi, sia lui a chiudere i tuoi! […] Laerte, inabile alle armi, non può mantenere il regno in mezzo ai nemici. 

Dante ricorderà proprio questi tre affetti nelle parole di Ulisse che gli racconta del suo ultimo viaggio:
Né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.

Telemaco, conclude Penelope, è ancora piccolo, ha bisogno dell’aiuto di un padre per crescere e divenire vigoroso («Tu hai, e prego che tu possa continuare ad avere, un figlio che doveva essere istruito in tenera età nelle conoscenze paterne»). La casa ha bisogno di Ulisse, «porto e rifugio» per tutti i suoi cari. Laerte attende a morire, perché non può chiudere gli occhi senza aver rivisto il figlio. Penelope, che ha sposato Ulisse in giovane età, ora dopo vent’anni d’attesa apparirà al marito vecchia, non più bella come un tempo!

La lettera di Penelope mostra la sensibilità di un cuore femminile ben conscio dell’importanza dell’unità familiare, dei differenti compiti educativi di un padre e di una madre, del valore della fedeltà nonostante tutte le difficoltà.

Ovidio con l’acutezza psicologica che gli si deve riconoscere rivela che la paura più profonda di una donna è quella di essere abbandonata.