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ORA DI DOTTRINA / 52 - LA TRASCRIZIONE

Pena di morte e trapianto di organi - Il testo del video

Rimanendo al Quinto comandamento due questioni sono dibattute: sulla pena di morte, il recente cambiamento nel Catechismo, che la giudica sempre "inammissibile", è problematico perché in contraddizione con la versione precedente. E sui trapianti da morto a vivo la Chiesa non ha mai accettato come definitivo il concetto di morte cerebrale.

Catechismo 15_01_2023

La lezione odierna sul quinto comandamento si concentra su due temi delicati. I temi trattati sino ad ora, come per esempio l'aborto, l'eutanasia, il suicidio, sono temi importanti su cui vi è una chiarezza di principi ed una diffusa conoscenza di questi stessi.

Oggi parliamo invece di pena di morte e di trapianto d'organi, che hanno bisogno di essere trattati a parte ed appositamente, perché sono temi dibattuti.

LA PENA DI MORTE
Riguardo alla pena di morte, c'è stata una modifica del numero 2267 del Catechismo della Chiesa Cattolica.

Se noi prendiamo l’articolo vecchio, ovvero la versione prima della modifica troviamo la seguente affermazione: «L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani».

L'articolo poi continua dicendo che se vi sono altri mezzi per raggiungere questo scopo, essi sono da preferire in quanto più conformi alla dignità della persona.

La nuova versione ha cambiato l’intero paragrafo, offrendo questa valutazione centrale: «Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che “la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona”, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo».

Questi due testi sono, come si comprende, difficilmente compatibili.

Nella prima versione si ha la chiara affermazione che l'insegnamento della Chiesa ammette la liceità del ricorso alla pena di morte. Dunque la pena di morte non è un atto che ricade nella proibizione assoluta di uccidere. Ricordiamo che il testo del quinto comandamento riguarda l'uccisione diretta e volontaria di un innocente. La pena di morte non è un atto intrinsecamente cattivo, ma la sua liceità dipende da precise condizioni.

Nella seconda versione, che riporta un discorso di papa Francesco del 2017, si dice invece che la pena di morte è inammissibile, ovvero che non può mai essere ammessa, perché attenta all'inviolabilità e alla dignità della persona.

- C’è dunque un problema: le due versioni non stanno insieme tra loro, come dunque possono essere armonizzate?

Innanzitutto dobbiamo domandarci quale fosse questo «insegnamento tradizionale della Chiesa» a cui fa riferimento il numero 2267 così come era concepito all'origine, nella prima versione.
Questo insegnamento lo troviamo nel Catechismo Tridentino, il catechismo seguente al Concilio di Trento e voluto da San Pio V, che al numero 328 spiega:

«Altra categoria di uccisioni permessa è quella, che rientra nei poteri di quei magistrati, i quali hanno facoltà di condannare a morte. Tale facoltà, esercitata secondo le norme legali, serve a reprimere i facinorosi e a difendere gli innocenti».

Poi il numero 413 del Catechismo di San Pio X:

«È lecito uccidere il prossimo quando si combatte una guerra giusta... quando si esegue per ordine dell'autorità suprema la condanna di morte in pena di qualche delitto...»

Sono due testi tratti da due Catechismi importanti, che sono stati utilizzati nella Chiesa universale. Vi sono poi altri riferimenti classici: un discorso di san Pio XII del 14 settembre 1952 e, per andare ancora più indietro, un testo di Innocenzo III.  

Vediamo quest’ultimo; si trova nell' Enchiridion symbolorum, al numero 795. Non si tratta di un testo di Innocenzo III, bensì di una professione di fede del 1207 di Durando d'Osca, che era un valdese tornato alla Chiesa Cattolica; questa formula appunto è stata ripresa in una lettera di Innocenzo III del 1210, inviata all'arcivescovo di Tarragona e ai vescovi suffraganei, per dire che questa era la formula per riaccogliere i valdesi nella Chiesa cattolica, quindi si tratta di una vera e propria professione di fede perché i valdesi potessero essere riammessi nella Chiesa cattolica.

Tra i vari articoli che vengono chiesti ai valdesi di accettare per tornare nella Chiesa vi è questo: «Per quanto riguarda il potere secolare dichiariamo che può esercitare il giudizio di sangue senza peccato mortale, purché nel portare la vendetta proceda non per odio ma per atto di giustizia, non in modo incauto ma con riflessione». La “pena di sangue” è la pena capitale.

Quale è il punto della questione? L'azione materiale di uccidere non è sempre omicidio; lo abbiamo già visto per la legittima difesa, che non è una eccezione al divieto, ma è un'azione con una diversa specie morale. Perciò non sempre ripetendo lo stesso atto materiale si ha il medesimo atto morale; infatti nella legittima difesa non vi è l’intenzione di uccidere una persona, ma di difendere la propria vita.

La specie morale della pena capitale è analoga alla legittima difesa, ovvero quella di difendere la collettività, infliggendo una pena giusta, ovvero proporzionata, al fine della difesa della collettività. Questo non significa che la pena capitale sia sempre giusta e ancor meno che sia sempre opportuna. È ovvio che vi deve essere la certezza della colpevolezza della persona e che questa deve essere proporzionatamente punita. Se la pena di morte fosse intrinsecamente cattiva e se dunque quell' "inammissibile" del nuovo testo volesse dire questo, allora dobbiamo dedurre che la Chiesa Cattolica avrebbe abitualmente indotto in errore i fedeli in materia grave, considerando legittimo in alcuni casi ciò che invece sarebbe intrinsecamente malvagio.

Si può e si deve discutere sull'opportunità della pena di morte in determinati contesti, ma è problematico discutere sulla sua legittimità in assoluto.       

TRAPIANTO DI ORGANI
Un punto ancora più delicato riguarda il trapianto di organi. Il Catechismo ne parla al numero 2296: «Il trapianto di organi è conforme alla legge morale se i danni e i rischi fisici e psichici in cui incorre il donatore sono proporzionati al bene che si cerca per il destinatario».

Il principio fondamentale per il trapianto di organi tra viventi è la proporzionalità tra il bene del destinatario e quello del donatore. Non si può infliggere la morte o un danno grave al donatore per salvare il destinatario.

Per quanto riguarda invece la donazione di organi dopo la morte del donatore, essa «è un atto nobile e meritorio ed è da incoraggiare come manifestazione di generosa solidarietà. Non è moralmente accettabile se il donatore o i suoi aventi diritto non vi hanno dato il loro esplicito consenso. È inoltre moralmente inammissibile provocare direttamente la mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia pure per ritardare il decesso di altre persone».

Non si può mai arrecare un grave danno, come una mutilazione, e ancor più non si può mai provocare la morte di una persona per il bene di un'altra, fosse anche col fine di salvargli la vita.

Nel caso di donazione da morto a vivente, si apre tutto il problema di capire quando il donatore è morto e quando non lo è. Se infatti io non posso mai provocare la morte della persona, dobbiamo anche sapere che gli organi - fatto salvo le cornee - devono essere irrorati di sangue per essere espiantati; ecco allora che si apre l'enorme problema della definizione della morte, in particolare della cosiddetta “morte cerebrale”. Come avete notato, il catechismo né accetta né respinge questo criterio: semplicemente non ne parla. Ci insegna invece il criterio che non è mai possibile infliggere la morte per espiantare un organo.

Nel 1985, e poi nel 1989, la Pontificia Accademia delle Scienze, un organo della Santa Sede che non ha valore magisteriale, ma consultivo, difendeva invece il concetto di morte cerebrale, dicendo che i relativi criteri erano sufficienti per attestare la morte della persona. Inoltre, vi è stato un pronunciamento di Giovanni Paolo II nell'anno 2000, durante un discorso al Congresso internazionale della Società di Trapianti. La citazione in questione è la seguente:

«Si può affermare che il recente criterio di accertamento della morte, cioè la cessazione totale e irreversibile di ogni attività encefalica, se applicato scrupolosamente, non appare in contrasto con gli elementi essenziali di una corretta concezione antropologica».

Questo pronunciamento non sta dicendo che sicuramente la “morte cerebrale” non è in contrasto con una corretta concezione antropologica, ma che “non appare” in contrasto. È dunque una posizione provvisoria, prudenziale, che invece è stata considerata come definitiva.

Nel 2005, però, sempre Giovanni Paolo II indirizzava alla medesima Pontificia Accademia delle Scienze,un discorso, nel quale affermava che, dal punto di vista clinico, devono essere individuati «adeguati “segni di morte” rilevati tramite la loro manifestazione fisica nel soggetto individuale».

C'è una maturazione, rispetto al messaggio del 2000: non si parla più dei criteri della morte cerebrale o della cessazione totale e irreversibile dell'attività cerebrale, ma di rilevare le manifestazioni fisiche e cliniche della morte dell'individuo.

Il 7 novembre del 2008 Benedetto XVI indirizzò un discorso ad un Congresso Internazionale organizzato dalla Pontificia accademia per la Vita e sottolineò che, durante una donazione da morto a vivente, «gli organi individuali non possono essere estratti se non ex cadavere». Inoltre, aggiungeva che «non può esserci il minimo sospetto di arbitrarietà e laddove la certezza non può essere raggiunta deve prevalere il principio di precauzione». Se non c'è la certezza della morte del donatore deve prevalere il principio di precauzione: non posso mai uccidere l'innocente. Infine, «il criterio principale del rispetto della vita del donatore deve sempre prevalere di modo che l'estrazione di organi possa avvenire solo nel caso della sua vera morte».

Un altro segnale importante di una maggior prudenza rispetto ai criteri di accertamento della morte del donatore, è il Compendio del Catechismo, al numero 476: «Deve essere pienamente accertata la morte reale del donatore».

È molto importante fare una pausa di riflessione su questo tema: la Chiesa Cattolica non ha mai insegnato a livello magisteriale che certamente la morte cerebrale è un criterio soddisfacente. I criteri che invece stabilisce sono che la persona sia effettivamente morta e che questa morte debba essere pienamente accertata, non basta la presunzione che lo sia. Il dibattito continua, ci sono posizioni importanti contrarie alla definizione di morte cerebrale, come quella di Robert Spaemann o Josef Seifert. In ogni caso non vi è alcun documento magisteriale ufficiale che abbia inteso porre fine al dibattito, stabilendo una posizione certa e definitiva sul punto, salvo i chiari criteri suddetti.