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AUSTRALIA

Pell condannato a 6 anni e messo alla gogna. Ma c'è il ricorso

George Pell è stato condannato a sei anni di prigione con la possibilità, dopo tre anni e otto mesi, di ottenere la libertà su cauzione. Durante l’udienza, trasmessa in diretta, il giudice si è scagliato contro il cardinale, in quella che è sembrata una vera e propria gogna. I legali di Pell hanno già presentato ricorso su tre basi, prima tra tutte l’irragionevolezza del verdetto che si fonda “unicamente sulla parola del denunciante”.

Attualità 14_03_2019

Una probabile ingiustizia è stata commessa. Il giudice Peter Kidd ha condannato il cardinale George Pell a sei anni di prigione, con la possibilità, dopo tre anni e otto mesi, di ottenere la libertà su cauzione. Pell è stato ritenuto responsabile da una giuria di cinque atti di aggressione sessuale (quattro dei quali contemporanei) contro due ragazzi del coro che nel 1996, all’epoca della sua nomina ad arcivescovo di Melbourne, avevano 13 anni.

Pell ha sempre sostenuto di essere innocente, e continua a farlo: la sua squadra di legali presenterà appello contro la sentenza, che - è opportuno ricordarlo - si basa solo sulla parola di un denunciante e non è supportata da nessun’altra evidenza testimoniale. Pell, che è cardinale e che al momento dell’esplosione del processo viveva in Vaticano, come responsabile della Segreteria per l’economia, avrebbe potuto tranquillamente restare dentro le mura vaticane e avvalersi di ogni tipo di immunità. Deciso a mostrare la sua innocenza e convinto della correttezza del sistema giudiziario australiano, aveva chiesto al Pontefice il permesso di tornare in patria per difendersi dalle accuse. La sua richiesta di appello dovrebbe essere discussa il 5-6 giugno.

Secondo l’accusa, Pell, subito dopo una solenne Messa domenicale, ancora vestito con i paramenti liturgici, avrebbe assaltato sessualmente in una sacrestia non isolata due ragazzini del coro, sorpresi a bere il vino da usare per la consacrazione, obbligandone uno alla fellatio e usando l’altro per masturbarsi. Il tutto in cinque-sei minuti in una zona tutt’altro che isolata. In un’altra occasione avrebbe spinto un ragazzino contro un pilastro toccandogli i genitali. E poi basta. Uno strano comportamento per uno con quei gusti, no? In genere chi ha certi piaceri e gusti tende a ripeterli.

A ogni modo, su questa base traballante la giuria ha condannato Pell per cinque reati, ciascuno dei quali passibile di dieci anni di galera. A dispetto del fatto che nel frattempo uno dei denuncianti, morto per overdose, avesse detto a sua madre di non essere mai stato molestato. Ma tant’è. Dopo la condanna un numero impressionante di voci autorevoli - alcune non cattoliche e non cristiane - si sono levate per esprimere dubbi e perplessità su una sentenza che sa molto di caccia a un capro espiatorio eccellente, in un clima di anti-cattolicesimo parossistico. Di cui si è avuta un’eco nell’arringa, durata circa un’ora e trasmessa in diretta televisiva, del giudice, che si è scagliato contro Pell accusandolo di aver abusato della sua autorità. “Lei era un pilastro della cattedrale di San Patrizio in virtù della sua posizione. L’arroganza della sua condotta è indicativa del suo potere sulle vittime”.

Il giudice ha dato per scontato il verdetto della giuria. Ha poi detto che ha dovuto considerare l’età e le condizioni di salute del cardinale, osservando che lo stress della prigione avrebbe un effetto negativo sulle condizioni cardiache e sull’ipertensione. “Ogni anno che lei passa in prigione” rappresenterebbe una larga parte della vita restante, e “lei potrebbe persino non vivere fino al momento di essere liberato”. Il giudice ha dovuto ammettere che il fatto che siano passati vent’anni dalle presunte aggressioni senza che Pell sia mai stato accusato di nient’altro non lo fa considerare un soggetto rischioso. Ma a dispetto di questo il cardinale è stato iscritto nel registro dei sex offenders.

La squadra legale di Pell ha presentato appello su tre basi. La prima: il verdetto emanato dalla giuria di 12 persone è “irragionevole”, perché si basa “unicamente sulla parola del denunciante”. E in effetti, vista dall’esterno, questa circostanza appare assolutamente incredibile: che cioè, a vent’anni di distanza da un fatto presunto, chiunque possa essere condannato in base a un’accusa priva di testimonianze di appoggio. “Il verdetto è irragionevole, e non può essere sostenuto se si guarda all’evidenza”. Il ricorso afferma poi che “in base a tutta l’evidenza, compresa l’evidenza a discolpa e non contrastata di più di venti testimoni della Corona, non era possibile per la giuria essere soddisfatta oltre ogni ragionevole dubbio unicamente sulla parola dell’accusatore”. E qui veniamo alla seconda base. La difesa aveva preparato un filmato per mostrare alla giuria come fosse impossibile compiere attività sessuale nei luoghi e nei modi descritti dall’accusatore - nella cattedrale e in quel momento della mattina - subito dopo la Messa principale celebrata da Pell: ma la proiezione di questo filmato non è stata permessa dal giudice. Una decisione che viste le circostanze - un’accusa senza testimoni - non appare comprensibile, se non nell’ottica di un pregiudizio contro Pell.

La terza base di appello è una questione tecnica. Nel secondo processo, Pell non si è presentato per dichiararsi “non colpevole” di fronte alla giuria. Questo fatto ha giocato a suo sfavore, ma i legali dicono che l’aveva fatto nel primo processo, quello il cui verdetto non era stato accettato dal giudice perché non unanime: era un 10-2 a favore di Pell. Se l’appello venisse accettato in base al secondo e al terzo punto il verdetto potrebbe essere annullato, ma il giudice dovrebbe ordinare un nuovo processo.