Pd partito radicale, il ritardo di Delrio e dei cattoprogressisti
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Delrio e i cattoprogressisti lamentano la deriva radicale del Pd, ma hanno appoggiato tutte le riforme radicali in parlamento. Ora pretendono una libertà di coscienza che non hanno mai adoperato. Bastava leggere Del Noce.
Del voto in consiglio regionale del Veneto che ha bocciato la cosiddetta “legge Zaia” sul fine vita avevamo subito parlato [QUI], per concludere che in questa regione un cattolico non potrà votare Lega alle prossime regionali. Pensavamo che a Venezia si fosse consumata una frattura dentro la Lega, divisa a metà nel voto in consiglio e con Salvini che si dissociava, e addirittura dentro il centro-destra perché Forza Italia e Fratelli d’Italia, alleati della Lega al governo, si erano collocati nel fronte del no.
In seguito, invece, è emerso che una divisione c’è stata sì, ma dentro il Partito Democratico. Cosa è successo? Con quel no del consiglio regionale non ha perso solo Zaia, non ha perso solo la componente della Lega che voleva il percorso lagunare al suicidio assistito, ma anche il Partito Democratico che era per il sì, come è sempre stato, del resto, sui temi della vita e della famiglia. A farli perdere entrambi è stata la consigliera del Pd Anna Maria Bigon, avvocato veronese, che è rimasta in aula e si è astenuta dal voto, mentre il partito le aveva chiesto di uscire per far diminuire il quorum ed evitare la sconfitta. Nei giorni successivi la Bigon è stata esonerata dal suo incarico di vicepresidente del partito a Verona.
Ma non è finita qui. Come ha raccontato ieri Antonio Polito sul Corriere della Sera [QUI] è accaduto che la segretaria Pd, Elly Schlein, durante il “ritiro” di Gubbio, abbia censurato duramente la consigliera Bigon, quella che ha fatto la differenza nel voto per non aver accettato di uscire. Secondo la Schlein avrebbe dovuto obbedire: «Se il partito ti chiede di uscire dall’aula, è giusto farlo e non decidere da sola». Davanti a questa ripresa piuttosto fuori tempo della dottrina del partito come Moderno Principe e della necessità della sua ferrea disciplina, i cattolici democratici militanti nel Pd hanno alzato la voce.
Graziano Delrio dice: «Chiariamoci, se il mio partito, nato per essere custode dell’incontro tra i valori dell’umanesimo cristiano e di quello socialista, diventa una copia del Partito radicale, che pure molto rispetto, allora non mi sentirei più a casa mia». Anche Guerini, Serracchiani e Castagnetti hanno detto la loro. Intendiamoci, non succederà un bel niente, nessuno di costoro uscirà dal partito, Delrio infatti ha usato il condizionale e non l’indicativo, e poi, come scrive giustamente Polito: «Se escono, dove vanno?». Il centro è occupato da partiti, come Italia Viva, Più Europa o Azione, ancora più radicali.
Anche se tutto si risolverà politicamente in una bolla di sapone, colpisce l’enorme ritardo con il quale Graziano Delrio che, come scrive Polito «non ha mai votato DC» - e che, aggiungo io, viene da Reggio Emilia ed è un esponente di rango del dossettismo -, si accorge che il Pd è uguale al Partito radicale. Un tempo si diceva che il Pd era un Partito radicale di massa, tanto la cosa era evidente: Pannella e Bonino elaboravano e il Partito post-comunista applicava in Parlamento, come fanno oggi Cappato e Democratici. Se oggi non lo si dice più non è perché non sia più radicale, ma perché non è più di massa.
Delrio sembra capire finalmente adesso quello che Augusto Del Noce capì già nei primi anni Sessanta del secolo scorso quando scrisse Il Problema dell’ateismo, illustrò ne Il problema politico dei cattolici del 1967, spiegò ancora meglio nel 1978 con Il suicidio della rivoluzione e precisò sul piano della storia delle idee e della storia italiana in Il cattolico comunista nel 1981.
Il comunismo italiano sviluppa il principio marxiano della struttura e della sovrastruttura rovesciandolo e sostenendo che è la struttura economica a dipendere dalla sovrastruttura culturale e non viceversa, come dogmaticamente si era sempre pensato nella famiglia marxista. Quindi bisogna prima rovesciare la cultura per rovesciare poi la dipendenza economica e lo sfruttamento.
La rivoluzione preventiva sul piano dei valori morali e naturali avrebbe dovuto precedere quella consuntiva di carattere politico. Bisognava condurre il popolo ad un immanentismo radicale. In questo impegno, il comunismo italiano si trovò alleato con lo spirito laico e liberale, con lo spirito borghese allo stato puro, individualista e libertario. Finì per rinunciare alla rivoluzione consuntiva e quella preventiva neoilluminista diventò l’unica.
In questo modo il comunista divenne borghese e su questo punto ha oggi ragione Diego Fusaro nel rimproverare il Partito Democratico di difendere gli omosessuali e non gli operai, ma era inevitabile date le premesse. Il comunismo avrebbe dovuto produrre una cultura in cui l’uomo diventasse padrone di se stesso, dovendo solo a se stesso la propria esistenza. Questa è anche la visione liberale della modernità radicale con il suo principio di autodeterminazione, di cui però non avrebbe dovuto godere la consigliera Bigon.
L’uscita di Delrio e amici potrebbe far pensare ad un rigurgito di orgoglio del cattolicesimo democratico. Ma poi ci si ricorda che tutti questi signori hanno finora appoggiato tutte le riforme radicali in parlamento, senza nemmeno uscire dall’aula al momento del voto. Del Noce scriveva che «mentre è possibile discutere con l’intellettuale rigorosamente marxista, non lo è invece col progressista cattolico». E ora, proprio costoro, pretendono una libertà di coscienza che in passato hanno scarsamente adoperato.