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UNA PAROLA ABUSATA

Patria, il dovere di un cattolico contro gli sradicamenti

In questo periodo di sovranismo rampante si fa un gran parlare di interesse nazionale e di patria. Ma che cos'è la patria? Il cosidetto «amor di patria» è tutt’altro che estraneo ai cattolici. È una «pietra d’inciampo» in una cultura che considera le persone («migranti» o studenti Erasmus) come individui senza radici né identità.

Editoriali 02_08_2020

In questo periodo di sovranismo rampante si fa un gran parlare di interesse nazionale e di patria, di nazione eccetera eccetera. Ma cos’è la patria? È giusto che un cattolico sia patriottico o dovrebbe essere internazionalista? Cominciamo distinguendo la nazione, lo Stato e la patria.

La nazione è un concetto di non facile definizione. Solitamente si chiama nazione l’insieme delle persone accomunate da lingua, religione, etnia e cultura. Sembra semplice, ma non lo è: ognuno di questi elementi contribuisce a creare un senso di identità, ma nessuno di essi sembra decisivo. Certamente gli italiani sono una nazione da millenni, ma è difficile sostenere che appartengano ad un’unica etnia, o che abbiano sempre parlato un’unica lingua: basti pensare alla notissima incomunicabilità tra fanti italiani durante la Prima Guerra Mondiale.

Qualcuno se la cava dicendo che la nazione è l’insieme delle persone che abitano in un territorio definito da «confini naturali». È sufficiente passare brevemente in rassegna alcune nazioni europee per capire che non si tratta di una gran definizione. Quante nazioni hanno confini che non hanno nulla di «naturale»: non coincidono con montagne, con fiumi, con nulla. Dove finisce una nazione? Molti albanesi, ad esempio, fanno riferimento a una «Shqipëria natyrale», ovvero una Albania naturale, che comprende una serie di territori sotto la sovranità della Serbia, della Macedonia del Nord, del Montenegro e della Grecia. Dai tempi di Federico II di Prussia i tedeschi considerano mezza Polonia il loro lebensraum, spazio vitale; a loro volta, i polacchi continuano a considerare Kiev una città polacca. Potremmo semplicemente restare in Italia: l’Istria e la Dalmazia sono ancora terre da redimere? E perché quelle sì e Nizza e la Savoia (patrie di due padri della patria) no? Quelle valli sono Alto Adige o Sud Tirolo? Tutt’altro che semplice, definire una nazione dai propri confini.

Questa difficoltà è ciò che ha portato filosofi moderni a tentare di fornire una nuova definizione di nazione. Ernest Renan (1823-1892), ad esempio, definiva la nazione come «una grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere». Alla precedente, un po' retorica e vaga, preferisco di gran lunga la definizione del filosofo iberico José Ortega Y Gasset (1883-1955), per il quale la nazione è l’unione di due elementi: «un programma di convivenza totale per una comune impresa» e «l’adesione degli uomini a questo programma». Non angustiamoci troppo a chiederci quale sia il programma che viene proposto ora agli italiani, o se essi siano ancora una nazione.

Lo Stato è un’organizzazione politica; può coincidere o meno con una nazione. Gli italiani, ad esempio, erano una nazione prima di essere uno Stato; i polacchi, per centoventi anni, furono una nazione divisa in tre stati; l’Austria imperiale era un crogiuolo di nazioni. Gli abitanti di uno Stato si definiscono popolo, parola che non è sempre sinonimo di nazione. Altra differenza tra popolo e nazione è che il popolo è l’insieme degli attuali cittadini di uno Stato; la nazione comprende coloro che nel passato le sono appartenuti.

Veniamo ora al concetto di patria, letteralmente «la terra dei padri». Com’è facile intuire, la patria non coincide sempre con lo Stato. Concide forse con la nazione? Anche in questo caso, non sempre. L’Italia, ad esempio, è una nazione da millenni, Stato da circa centosessant’anni; patria non lo è mai stata. La patria degli italiani è la città, una dimensione minima che, tuttavia, ha sempre dato un forte senso di appartenenza e di identità. Lo si vede anche nella cucina italiana, che ci ostiniamo a chiamare regionale quando, più propriamente, è cittadina. Lo si vede nel campanilismo che oppone città a città; nel tifo sportivo.

Veniamo alla domanda topica: è lecito, è giusto che un cattolico sia patriota? Ci rivolgiamo a san Tommaso che, indirettamente, affronta la questione nella Summa Teologica.

Cominciamo col dire che, per l’aquinate, la vera patria di tutti gli uomini è il Paradiso: quello è il luogo al quale tutti apparteniamo e del quale sentiamo la nostalgia. Per quanto riguarda la patria terrena, san Tommaso scrive che ad essa si debbono servizi e venerazioni come si debbono ai genitori; perché la patria, come la famiglia, «per natura» è «causa o principio della nostra esistenza e del nostro vivere» e per questo «merita speciali riguardi» (II-II q. 101, a. 3). Poco prima spiega che «i legami che abbiamo con la parentela e con i compatrioti sono più connessi di altri legami con il principio del nostro essere» (II-II q. 101, a. 1).

Pare quindi che il cattolico sia tenuto a «speciali riguardi» nei confronti della patria per legge di natura.

Il papa tomista Leone XIII, nella lettera enciclica Sapientiae cristianae (10 gennaio 1890) paragona la patria alla Chiesa: «se siamo obbligati per legge di natura ad amare e difendere particolarmente quella città nella quale siamo nati e cresciuti in questa luce, fino al punto che un buon cittadino non può dubitare di dover dare anche la vita per la patria, è molto più doveroso per i cristiani amare sempre la Chiesa. La Chiesa è infatti la città santa del Dio vivente, nata da Dio stesso e costituita dallo stesso Autore: è pellegrina qui sulla terra, ma sempre intenta a chiamare gli uomini per istruirli e condurli all’eterna felicità del cielo. Pertanto si deve amare la patria dalla quale abbiamo ricevuto il dono di una vita mortale: ma è necessario anteporle nell’amore la Chiesa, alla quale dobbiamo una vita che durerà in perpetuo: perché bisogna anteporre i beni dell’anima a quelli del corpo; i nostri doveri verso Dio sono molto più santi che non quelli verso gli uomini. D’altra parte, se si vuole giudicare rettamente, l’amore soprannaturale per la Chiesa e l’amore naturale per la patria sono entrambi figli della stessa sempiterna fonte, poiché hanno come causa e autore Dio stesso, dal che consegue che un dovere non può essere in contraddizione con l’altro».

Pio XI, nell’enciclica Ubi arcano Dei consilio (23 dicembre 1922), ha parole bellissime per l’Italia: «l’Italia, la carissima patria Nostra, il paese nel quale la mano di Dio, che regge il corso della storia, poneva e fissava la sede del suo Vicario in terra, in questa Roma, che da capitale del meraviglioso ma pur ristretto romano impero, veniva fatta da Lui la capitale del mondo intero, perché sede di una sovranità divina che, sorpassando ogni confine di Nazioni e di Stati, tutti gli uomini e tutti i popoli abbraccia». E, sull’amore di patria, scrive che «è per sé incitamento di molte virtù ed anche di mirabili eroismi, quando sia regolato dalla legge cristiana»; ma «diviene occasione ed incentivo di gravi ingiustizie, quando, da giusto amor di patria, diventa immoderato nazionalismo; quando dimentica che tutti i popoli sono fratelli nella grande famiglia dell’umanità, che anche le altre nazioni hanno diritto a vivere e prosperare, che non è mai né lecito né savio disgiungere l’utile dall’onesto».

Un vero e proprio inno alla patria è il discorso (2 giugno 1979) che Giovanni Paolo II tenne durante il suo primo viaggio pontificio in Polonia. Ecco un piccolo assaggio: «Il fatto che la ragion d’essere dello Stato è la sovranità della società, della nazione, della patria, noi Polacchi lo sentiamo in modo particolarmente profondo. Lo abbiamo imparato lungo tutto l’arco della nostra storia e specialmente attraverso le dure prove storiche degli ultimi secoli. Non possiamo mai dimenticare quella terribile lezione storica che è stata la perdita dell’indipendenza della Polonia dalla fine del XVIII secolo sino all’inizio del secolo corrente. Questa dolorosa e, nella sua essenza, negativa esperienza è diventata come una nuova fucina del patriottismo polacco. La parola “patria” ha per noi un tale significato, concettuale ed insieme affettivo, che le altre Nazioni dell’Europa e del mondo sembra non lo conoscano, specialmente quelle che non hanno sperimentato – come la nostra Nazione – danni storici, ingiustizie e minacce».

Insomma: a quanto pare, il cosidetto «amor di patria» è tutt’altro che estraneo ai cattolici. Anche questo tema, dunque, rappresenta un’ottima occasione per essere «pietra d’inciampo» in una cultura che considera le persone («migranti» o studenti erasmus) come individui senza radici né identità.