Pandemia, si continua tragicamente a sbagliare
A un anno dalle prime, pesanti restrizioni della nostra libertà, sacrificata sull’altare dell’emergenza sanitaria, siamo al punto di partenza nella lotta contro il Covid 19. L’unica differenza è l’attesa messianica del vaccino. Ma per uscirne davvero occorre riflettere su dove si è sbagliato in questi dodici mesi, di chi sono le colpe, gli errori, soprattutto le leggerezze, i ritardi, le bugie. Il sociologo Luca Ricolfi analizza ciò che non è stato fatto in un saggio su "Come si malgoverna una pandemia".
Luca Ricolfi, il presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume, che produce accurate analisi indipendenti e non targate politicamente, con La notte delle ninfee. Come si malgoverna una pandemia (La nave di Teseo) ci offre pagine illuminanti sull’emergenza che ci ha stravolto la vita e la sua (pessima) gestione. Che sostanzialmente con l’arrivo di Draghi non è cambiata nei suoi criteri di fondo, sia perché l’enorme danno causato dal precedente governo - in carica fino a poche settimane fa - è stato talmente devastante che non è facile porvi rimedio in breve tempo, invertendo la rotta, sia perché in alcuni posti chiave, tra ministri e consulenti, a pontificare e a imporre soluzioni di corto respiro sono rimaste le stesse persone. E non basta che siano usciti di scena Giuseppe Conte e Domenico Arcuri, che sicuramente hanno compiuto una serie infinita di scelte sbagliate, se nella sostanza si continua ancora sulla vecchia strada, riproponendo soluzioni che si sono mostrate fallimentari.
Il primo ad aver conservato la poltrona, peraltro la più strategica e delicata nella lotta alla pandemia, è il ministro della Salute, l’enfant prodige della sinistra formato mignon Roberto Speranza. Con la casacca giallorossa, agli inizi di febbraio del 2020 affermava sicuro di stare attenti a “non diffondere il panico” e a “non cambiare stile di vita”. Titolare del ministero in prima linea nella lotta al Covid 19, sempre in quel periodo sentenziava: “basta allarmismi”, “l’allarmismo è sbagliato”, “non è affatto facile il contagio”. Di lì a poco la pandemia ci travolgerà, ma Speranza pensa di sconfiggerla senza un piano sanitario serio, aggiornato e adeguato, che probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vittime ed evitato il collasso economico del Paese. Poi, dopo un’estate un po’ “distratta”, il ministro compirà una bella giravolta, con le restrizioni a gogo e il mantra dei sacrifici dolorosi ma necessari; nessun mea culpa sugli errori, i ritardi, le verità nascoste.
A distanza di poco più di un anno il governo ha cambiato colore, anzi è di tutti i colori, ma l’improvvisato ministro privo di alcuna competenza sanitaria è ancora lì, sul medesimo scranno, a vigilare, ahinoi, sulla salute degli italiani. E che dire dell’ineffabile Luigi Di Maio, che nei giorni convulsi delle chiusure della prima zona rossa, come ministro degli Esteri nel governo Conte II ebbe la faccia tosta di sostenere che l’Italia era “un Paese sicuro”, dal momento che solo lo 0,1 per cento dei Comuni erano interessati dalla pandemia, e che da noi si poteva “venire tranquillamente”? Anche Luigino è ancora inchiodato alla poltrona, “recuperato” da Draghi per azzardati equilibri politici, non certo per le sue conoscenze geopolitiche, dal momento che un tempo era convinto che la Russia fosse un Paese del Mediterraneo…
Il terzo membro del governo lasciato al suo posto è il prefetto (o la prefetta) Luciana Lamorgese, titolare degli Interni, cioè responsabile di una convivenza pacifica e ordinata. Ebbene la Lamorgese, presentata come indipendente, in realtà è totalmente allineata con la rischiosa mentalità dell’accoglienza a tutti i costi, che ha disintegrato i Decreti sicurezza in vigore e di fatto approva , perfino favorisce, gli sbarchi indiscriminati sulle nostre coste. A questo proposito Ricolfi nel suo libro-denuncia punta il dito contro quella che definisce con coraggio “ideologia delle frontiere aperte e della libera circolazione”. Senza il prevalere di questa ideologia, “avremmo forse avuto una più oculata gestione degli sbarchi, che per mesi sono continuati senza controlli sanitari”.
Quando nell’estate dell’anno scorso i tamponi e i controlli sanitari hanno cominciato finalmente a funzionare “hanno rivelato percentuali di immigrati positivi altissime, almeno quaranta volte superiori a quelle degli italiani”. Capito? Bravo Ricolfi con i suoi calcoli matematici super partes: ci mette di fronte a una verità evidente, ma nello stesso tempo scomoda e non politicamente corretta. Lo studioso in particolare mette a fuoco i primi tempi della pandemia, quelli che hanno determinato il disastro che poi è seguito, grazie a un incredibile livello di impreparazione e dilettantismo unito a un’ intollerabile presunzione (Conte: “situazione sotto controllo”, 21 febbraio 2020; e poi ancora, sempre Conte: “abbiamo costruito una vera e propria diga protettiva”, 16 marzo 2020). Sparate di cui paghiamo ancora pesantemente le conseguenze. Ricolfi parla di “un lungo periodo di inerzia organizzativa, specialmente sul fronte sanitario”, accompagnata da un insopportabile “grande attivismo ideologico”.
Che ci siano stati giorni e giorni in cui non si è fatto nulla e si è perso tempo lo si scoprirà dopo, quando si verrà a sapere che le strutture sanitarie erano prive “dei più elementari dispositivi di protezione individuale e che nessun approvvigionamento” era stato disposto “per quanto riguarda mascherine e tamponi, entrambi ritenuti di scarsa utilità”. Della linea della rassicurazione faceva parte lo stesso professor Massimo Galli, che diventerà in seguito uno dei più intransigenti sostenitori della linea dura e star delle comparsate televisive: in un’intervista del 31 gennaio 2020 sosteneva infatti che “non ha senso andare in giro muniti di mascherine”. Che tra l’altro erano allora introvabili. Qual era in quel momento la principale preoccupazione (quasi un’ossessione) della classe politica al governo, sia nazionale che locale (pensiamo all’allora segretario piddino Zingaretti o agli illuminati sindaci di Milano e Bergamo, Sala e Gori)? Con l’appoggio dei più influenti mass media, che minimizzavano il rischio di contagi, non si voleva “discriminare la comunità cinese”, al punto di lanciare iniziative di solidarietà che oggi appaiono grottesche, tipo “bacia un cinese” o “andiamo al ristorante cinese”.
Ricolfi ci rinfresca la memoria ricordando che la presidenza nazionale dell’Arci (associazione culturale da sempre espressione del conformismo di sinistra) dichiarava che “il virus peggiore è il razzismo” , mentre un noto giornalista, che di lì a poco sarebbe stato chiamato a dirigere un importante quotidiano, sosteneva senza pudore che “il rischio non è il virus” , perché il vero untore non era altri che Salvini, che si rivolgeva con “parole infondate” alla popolazione. In effetti gran parte dei nostri connazionali in quel momento, è vero, aveva paura dei cinesi residenti in Italia. Ma, nota saggiamente il sociologo torinese, non tanto in quanto cinesi, “bensì in quanto potenziali portatori di un virus che, per varie ragioni, si è con tutta probabilità sviluppato in Cina”. Circostanza di cui ci stiamo tranquillamente dimenticando. In effetti in quella concitata fase iniziale “sembra che avere paura del virus sia una cosa scorretta, di destra, e che il compito di un buon cittadino, progressista sia denunciare gli allarmismi” e stigmatizzare “il panico che porta a disertare i ristoranti cinesi”.
Le pagine del saggio di Ricolfi, aggiornato a fine 2020, sono ricche di informazioni interessanti e poco note e di suggerimenti che, temiamo, rimarranno ancora inascoltati. Il punto di partenza non è essere contrari a priori alle chiusure e alle misure restrittive, ma avere ben presente che “non esiste una sola ricetta” e comunque “non ci si può permettere il lusso di avere come unica arma il lockdown (specie se tardivo)”. Impressionante la lista di altri strumenti che si potevano mettere in campo per combattere il virus senza chiudere tutto, strumenti che in altri Paesi, per esempio in Asia e nel Nord Europa, sono stati usati con risultati apprezzabili. Ecco l’elenco: piano antipandemico, controllo stretto alle frontiere, tamponi di massa, tracciamento elettronico, obbligo di indossare le mascherine fin dall’inizio, adeguato numero di posti letto ospedalieri ordinari, adeguato numero di terapie intensive, lockdown tempestivo, quarantena stretta, igienizzazione degli spazi all’aperto, aerazione/depurazione dei locali, classi scolastiche con pochi allievi, riduzione della capienza dei mezzi di trasporto pubblici. Quanti di questi tredici “strumenti possibili” e alternativi sono stati finora adottati in modo adeguato in Italia? Zero. E, si dovrebbe aggiungere - lo studio ne fa solo cenno -, occorre anche una maggior attenzione alla medicina di base e alle prime cure.
Qual è la conclusione di Ricolfi? Lancia un chiaro appello, ma teme che sarà inascoltato. “Cari politici, non nascondetevi dietro l’arrivo del vaccino”, scrive. “Non usatelo come alibi per non fare, ancora una volta, quel che andrebbe fatto”. Pur ipotizzando che davvero ci possa essere “una vaccinazione di massa entro l’estate” (è l’ennesima “promessa” di Speranza), il sociologo si augura che “chi ha provocato il disastro, non dico chieda scusa o tolga il disturbo (l’hanno fatto, o meglio sono stati costretti a farlo, solo Conte e Arcuri, ndr), ma almeno cambi completamente rotta”. Diversamente avremo “un regime permanente di stop and go”, che potrebbe durare anni. Ricolfi non si fa troppe illusioni: “L’attesa messianica del vaccino avvolgerà tutto e tutti, quasi niente cambierà davvero”. E accadrà che “nessuno sarà chiamato a rispondere delle sue azioni. Né ora né mai”. Purtroppo.