Pamela e l'immigrato: un omicidio "qualunque"
Il delitto di Macerata è un ammazzamento qualsiasi, mica un femminicidio. Infatti, del femminicidio non ricorrono gli estremi, tant’è che le femministe non hanno battuto ciglio: niente manifestazioni, indignazioni collettive. Infatti la stampa si è guardata bene dal «demonizzare» gli immigrati.
Pare sia stata María Marcela Lagarde, una femminista messicana, a coniare il termine «femminicidio», che però solo dal 2010 ha acceso la fantasia dei giornali italiani. E dei telegiornali, uno dei quali (il Tg2, per la precisione) addirittura ne tiene il conto e ne aggiorna i teleutenti con un riquadro numerato in alto a destra dello schermo: per esempio, «quarantacinquesimo femminicidio dall’inizio dell’anno…». Il termine implica in sé un’aggravante: se uccidi un uomo, un bambino, un vecchietto, anche la nonna, è un delitto comune, ma se ammazzi la moglie o la convivente è un reato a sé stante, a tutto tondo.
Più grave –sottinteso- degli altri, e il pubblico si deve costernare di più. L’ arrière pensée è questo: la donna è più debole e fragile dell’uomo, fisicamente s’intende, perciò farle del male –da parte maschile- è vieppiù odioso. Ed è inutile tirare fuori statistiche che evidenziano un fenomeno, l’uccisione di donne da parte del partner (questo è il femminicidio), tutto sommato contenuto, e addirittura, in Italia, meno diffuso che in altri posti (i Paesi nordici e quelli più «avanzati» hanno percentuali di violenze sulle donne di gran lunga maggiori) e che, sul totale degli omicidi, le vittime maschili sono di gran lunga più numerose. No, l’immaginario vuole la sua parte e scatta solo in presenza di fattori ben precisi: l’assassino deve avere un’età compresa tra i trentacinque e i sessantacinque anni, e la vittima deve essergli suppergiù coetanea; se l’omicida ha novant’anni e la morta quasi, allora non si parla di femminicidio. Lo stesso quando il fattaccio vede implicati due adolescenti.
L’ideale, per i media, è una situazione-standard: lei, stufa, vuole separarsi e lui la uccide. Questo è femminicidio «classico» e fa scattare il numerino al Tg2. La riprova di questo stampino mediatico l’abbiamo avuta nel delitto di Macerata: una ragazza diciottenne uccisa e fatta a pezzi da uno spacciatore nigeriano. «Il Giornale», nel titolo, sottolinea che l’assassino è un clandestino, ma non si sofferma sulla differenza di sesso tra omicida e vittima. E neanche gli altri grandi quotidiani: il «Corsera» parla di delitto, «Repubblica» di ragazza fatta a pezzi, la «Stampa» di assassinio, il «Messaggero» pure e l’«Ansa» di omicidio.
Pamela Mastropietro e stata uccisa da Innocent Oseghale, immigrato, il quale ha creduto bene di sezionarne il cadavere e chiuderlo in due trolley. Tutto qui. Molto probabilmente una storia di spaccio, staremo a vedere. Ma il punto è un altro. Questo è un ammazzamento qualsiasi, mica un femminicidio. Infatti, del femminicidio non ricorrono gli estremi, tant’è che le femministe non hanno battuto ciglio: niente manifestazioni, indignazioni collettive, volantinaggio, convegni, indizioni di «giornate», cortei con striscioni e facce dipinte.
No, quantunque la definizione di femminicidio non sia mai stata ufficialmente circoscritta, è ormai chiaro che essa riguarda un delitto verificatosi entro le mura domestiche o negli immediati paraggi. Naturalmente, l’assassino deve essere lui, se è lei non vale, non ha la stessa valenza ideologica. Un tempo si chiamavano delitti passionali, ma avevano il difetto di non distinguere il sesso della vittima. Poi è arrivata l’ideologia a fare chiarezza e a numerare i «femminicidi». Reato speciale, specialissimo. Per certuni, anzi, il più grave di tutti. Ah, quasi dimenticavo: mi raccomando, nella faccenda di Macerata, guardiamoci bene dal «demonizzare» gli immigrati…