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SCENARI

Palestina, detonatore del Medio Oriente

All''ONU si discute del riconoscimento dello Stato palestinese. Intanto
le rivolte nei Paesi arabi trasformano profondamente strategie e alleanze.

Attualità 19_09_2011
stato palestinese
Una macchina in corsa senza nessuno alla guida. Non si può descrivere che così la questione del riconoscimento dello Stato palestinese che - come annunciato ormai da mesi - da domani, 20 settembre, sarà discussa all’Assemblea generale dell’Onu. Il giorno cruciale sarà quello di venerdì 23, quando appunto è stato messo in calendario l’intervento di Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, finora presente a Palazzo di Vetro solo come una semplice «entità» senza diritto di voto. Dopo un lungo pressing diplomatico l’Anp è sicura che almeno 126 Paesi sugli attuali 193 - cioè quasi i due terzi - voteranno a favore dello Stato palestinese. Ma un voto dell’Assemblea - pur permettendo di innalzare comunque il livello della rappresentanza - da solo non basterà a garantire il rango di «membro a pieno titolo». Servirebbe anche l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, dove però gli Stati Uniti hanno già annunciato che porranno il diritto di veto, sostenendo così la posizione di Israele, contraria a ogni proclamazione unilaterale dello Stato palestinese.

In sé potrebbe sembrare solo l’ennesimo balletto diplomatico, dal momento che - al di là delle bandiere e delle dichiarazioni retoriche - uno Stato non nasce magicamente con una risoluzione. E dunque varrebbe la pena anche di ricordare che la Palestina è lo stesso posto dove ai primi di maggio era stato annunciato un accordo di riconciliazione tra le fazioni per un «governo di unità nazionale»; non solo non si è ancora visto, ma oggi è più lontano che mai. Tanto per rendere l’idea: Fatah e Hamas non si sono messi d’accordo neppure sull’ora legale; attualmente a Ramallah e a Gaza persino gli orologi segnano due orari diversi.

Il problema - però - è che questa «campagna di settembre» va a intrecciarsi con le crescenti delusioni delle piazze della «primavera araba». Con un Sinai diventato terra di nessuno, alla mercé dei gruppi salafiti.  Con la Turchia di Erdogan che mostra i muscoli per tornare a giocare il ruolo di potenza regionale. E con un’amministrazione Obama che - viceversa - in Medio Oriente non sa che pesci pigliare. Senza dimenticare un governo israeliano che ha fatto di tutto in questi ultimi tempi per accrescere ulteriormente il proprio isolamento internazionale. È mettendo in fila tutto questo che il voto sullo Stato palestinese diventa una questione tremendamente seria. Perché niente meglio delle manifestazioni contro «Israele che nega i diritti ai palestinesi» funziona benissimo nel mondo arabo per togliere anche tante altre castagne dal fuoco. Così l’assalto all’ambasciata israeliana del Cairo di qualche giorno fa rischia davvero di essere solo l’aperitivo rispetto a quanto potrebbe accadere nelle prossime settimane.

L’aspetto tragico di tutta la vicenda è il modo irresponsabile in cui si è arrivati a questo punto. «Sarebbe fondamentale per noi adesso riavviare la trattativa con i palestinesi», stava scritto in un memorandum dell’intelligence israeliana consegnato qualche giorno fa a Netanyahu e riferito dai quotidiani di Gerusalemme. «Bentornati dal mondo delle favole», verrebbe da dire. Come se non fosse stato chiaro fin dall’inizio, un anno fa, che il no al prolungamento della moratoria sulle costruzioni negli insediamenti significava chiudere ogni possibilità futura in questo senso. Per non parlare poi di Obama, che prima ha sposato la causa e poi ora pretenderebbe che Abu Mazen si suicidasse politicamente facendo marcia indietro insieme a lui.

Ma il punto vero è un altro: è finito il tempo del negoziato fine a se stesso, delle chiacchiere sul «processo di pace» e sui «due popoli e due Stati», delle liturgie con i leader che si stringono la mano. Sono diciott’anni, ormai, che si parla delle stesse cose, girando però sempre intorno ai problemi (gli insediamenti, Gerusalemme, il diritto al ritorno…), perché entrambe le parti non hanno la forza di dire con chiarezza quali prezzi sono disposti a pagare per la pace. Non lo fa Israele, ma non lo fanno neanche i palestinesi. Ed è un giochetto che non è a costo zero: inasprisce tensioni che spingono verso il baratro un’intera area del mondo a due passi da casa nostra.

Chi si era illuso che la «primavera araba» fosse destinata a togliere centralità alla questione palestinese si è sbagliato di grosso: è rimasta in stand-by per qualche mese, ma ora il nodo torna al pettine e in un quadro di rapporti di forza completamente diversi. Piaccia oppure no, tra qualche giorno questa approvazione dell’Assemblea generale dell’Onu ci sarà e rappresenterà una bandiera per le piazze arabe. E a poco servono minacce come quella di alcuni settori del Congresso americano che chiedono di tagliare per ritorsione i fondi all’Autorità nazionale palestinese: servirebbe solo a far precipitare la Cisgiordania nel caos (Hamas non chiede di meglio). Più utile sarebbe adoperarsi affinché nella risoluzione che verrà votata a Palazzo di Vetro si mettessero comunque le premesse per un negoziato vero, con punti di riferimento, obblighi per entrambi e scadenze precise. È la strada che sta tentando l’Unione europea in queste ore anche se - come al solito - con posizioni diverse (a proposito: quella dell’Italia qual è?).

E sarebbe anche auspicabile che alla fine di quel testo si aggiungesse una piccola postilla: d’ora in poi e fino alla fine del negoziato è vietato ai politici di tutto il mondo utilizzare la formula «due Stati per due popoli» senza accompagnarla immediatamente con una cartina su cui siano riconoscibili dei confini. Forse aiuterebbe a capire che le mediazioni si fanno su posizioni chiare e non accontentandosi delle chiacchiere.