Pakistan, uno stillicidio quotidiano
Un attacco suicida alla Chiesa di Ognissanti in Pakistan è costata la vita a 85 innocenti. Ma è solo un'episodio, perchè la persecuzione cruenta, a cui sono sottoposti i cristiani in questo paese, è quotidiana.
Della persecuzione cruenta cui sono sottoposti i cristiani in un Paese limite e ambiguo come il Pakistan ci si accorge solo di fronte a episodi eclatanti e particolarmente sanguinari come il doppio attacco suicida portato alla chiesa di Ognissanti (aderente alla Comunione anglicana) nell’antico quartiere di Swati Gate a Peshawar, che domenica 22 settembre è costato la vita di almeno 85 innocenti, mietendo altri 140 feriti. Ma lo stillicidio, che si consuma indisturbato lontano dalle luci della ribalta, è invece quotidiano.
Dal Paese asiatico giungono rapporti di continue vessazioni, intolleranze e violenze; e se non tutti gli episodi sono della medesima gravità, il logorio cui sono sottoposti i cristiani è snervante. Solo poche settimane fa, alcuni osservatori constatavano (e non certo auspicavano) un clima da vera e propria guerra civile, in cui il confronto diretto, sempre più aspro e irritante, potrebbe da un momento all’altro innescare la scintilla fatale. I cristiani, infatti, sono esasperati, e le vibranti proteste inscenate dopo l’eccidio di Peshawar lo hanno dimostrato.
Per la maggioranza musulmana di cui si compone il Paese, infatti, i cristiani sono e restano cittadini di serie b. Si possono trovare accordi, escogitare scappatoie o tentare modus vivendi, ma in questo contesto non potranno godere mai di un’uguaglianza reale con i musulmani. Peraltro, una palla al piede i cristiani lo sono pure per le istituzioni governative, costantemente impegnate in un minuetto che sa di doppio gioco fra “scelta legalitaria” (ma la legge vigente nel Paese è a un passo dall’essere quella smaccatamente coranica) e intelligenza con gli ambienti del talebanismo estremista. La pantomima, antica almeno quanto gli assassini di Shabhaz Bhatti (1968-2011) e di Salmaan Taseer (1944-2011), si ripete a ogni episodio di terrorismo: la polizia arriva sulla scena del crimine, muove un po’ di aria e avvia quelle indagini proverbialmente interminabili che alla fine partoriscono al massimo un capro espiatorio. Se le forze dell’ordine siano conniventi con gli stragisti o se davvero non sappiano che pesci pigliare non è infatti mai chiaro; probabilmente entrambe le cose, magari a livelli diversi; il fatto decisivo è però che la sostanza non cambia.
In questa situazione, la paralisi della polizia è una componente chiave del dramma pakistano. Dopo l’attentato di domenica scorsa, gl’inquirenti hanno subito fatto capire che qualsiasi forma di prevenzione è di fatto impossibile. I cristiani lamentavano a gran voce l’insufficienza dei sistemi di sicurezza (non solo i fedeli della chiesa di Ognissanti, ma anche i cattolici delle parrocchie attigue, subito accorsi in loro aiuto, supportati poi dalla Conferenza Episcopale Pakistana, che ha chiuso ogni propria istituzione educativa per tre giorni in segno di lutto), ma gli agenti hanno smentito, precisando però che nessuno cordone di sicurezza potrà mai mettere al riparo dalla lucida follia di un attentatore suicida. Vero. Ma è anche vero, osservano i cristiani, che spesso la polizia le mani se le lega da sole.
Life for All, per esempio, un’organizzazione attiva nella difesa dei diritti umani che ha sede a Lahore, sta ponendo in queste ore la domanda giusta. È davvero possibile, e prima ancora auspicabile, intavolare, come il governo pakistano sta oramai facendo da un po’, trattative di pace con le forze talebane attive nel Paese, quelle che un da una parte parlamentano e dall’altro massacrano? La guerra contro il terrorismo, scatenata dagli Stati Uniti all’indomani dell’Undici Settembre – afferma Life for All, – è una guerra inizialmente percepita dai pakistani come lontana, ma adesso è anche una guerra loro. Ed è ben difficile offrire la mano a chi giudica quel gesto solo l’occasione propizia per mozzarla. Alla vigilia dell’attentato contro la chiesa di Ognissanti, un alto ufficiale dell’esercito pakistano era stato assassinato non lontano dal confine con l’Afghanistan. Come ci si può fidare di gente che interpreta il dialogo di pace in questo modo? È stato saggio, si chiede pubblicamente Life for All, rilasciare, dalla prigione di Karachi dov’era detenuto dal 2010, il mullah Abdul Ghani Baradar, cofondatore del movimento talebano in Afghanistan ed ex numero due del regime, onde facilitare il processo di riconciliazione del Paese? Quando Baradar è stato liberato mancavano meno di 24 ore all’eccidio di Peshawar.