Pakistan, solidarietà dai leader islamici dopo il pogrom nel Punjab
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Pakistan, dopo la devastazione del quartiere cristiano di Jaranwala, nel Punjab, per la prima volta si assiste a una levata di scudi da parte dei leader islamici, che condannano gli atti di violenza. Imam influenti e politici islamici stanno anche concretamente aiutando le vittime cristiane.
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Il 16 agosto in Pakistan, paese a maggioranza musulmana, una ondata di violenza si è abbattuta sui cristiani di Jaranwala, città della provincia del Punjab. A provocarla è stato il ritrovamento di alcune pagine del Corano strappate e sparse per terra, un atto blasfemo di cui sono stati accusati dei cristiani. La reazione è stata durissima. Centinaia di persone per un giorno intero hanno attaccato, devastato, dato alle fiamme chiese, abitazioni e negozi di cristiani.
Ma, contro i fondamentalisti islamici istigatori di tanta violenza, si sono schierati diversi capi religiosi musulmani ed esponenti politici. A darne notizia, per mezzo dell’agenzia di stampa Fides, è monsignor Sebastian Shaw, arcivescovo di Lahore. Nei giorni successivi – racconta – si è verificato “qualcosa di impensabile fino a pochi anni fa, che testimonia i buoni frutti dati dalla paziente opera di vicinanza, amicizia, relazione e dialogo interreligioso che abbiamo avviato in Punjab, a Lahore e in altre diocesi. Ho accompagnato tre diverse delegazioni di capi musulmani con i quali abbiamo intessuto buone relazioni e con i quali condividiamo un percorso costante di incontro e di dialogo. Erano sunniti e sciiti, delle diverse scuole di pensiero islamico. Tutti hanno voluto esserci, hanno voluto vedere con i propri occhi. Molti di loro si sono commossi, tutti hanno mostrato solidarietà e vicinanza umana alle famiglie cristiane atterrite dalla violenza, hanno pregato con noi, hanno stretto le mani e consolato la gente che li ha accolti benevolmente, apprezzando tali gesti. Per noi qui in Pakistan, sono gesti di notevole importanza perché contribuiscono a cambiare la cultura e la mentalità, anche per l'eco mediatica che hanno avuto”.
Una delle tre delegazioni comprendeva Abdul Kabir Azad, imam della moschea reale di Lahore, la più grande e importante del Pakistan. “È un uomo molto noto per il servizio che ricopre. Sentire le sue parole di ferma condanna verso quanto è accaduto – spiega monsignor Shaw – è incoraggiante e infonde speranza. Kabir Azad e gli altri leader hanno detto con forza e chiarezza che la violenza su gente innocente non è un insegnamento dell’islam, è esecrabile e non va giustificata con la religione”.
Di un’altra delegazione in visita faceva parte un importante leader religioso, Tahir Mehmood Ashrafi, capo dell’All Pakistan Ulema Council, organismo molto influente a livello religioso e politico. “Ashrafi – dice monsignor Shaw – si è perfino commosso, fino a versare lacrime. A nome di tutti i musulmani del Pakistan ha chiesto perdono ai cristiani. Lo ha fatto in forma privata, parlando con le persone che incontrava, e lo ha fatto in forma pubblica, nella conferenza davanti a tutti i mass-media che hanno ripreso e trasmesso le sue parole, a beneficio di tutto il pubblico”.
La solidarietà dei capi religiosi è anche concreta. Hanno assicurato che sosterranno le spese per l’istruzione dei ragazzi delle famiglie colpite dalla violenza offrendo borse di studio per tutto il percorso scolastico fino al college e che contribuiranno alla ricostruzione delle chiese distrutte. Sono segni tangibili – dice monsignor Shaw – “che dimostrano sincera disposizione d’animo, prossimità e la buona volontà di quanti dissentono dalle forme di violenza intercomunitaria e dagli imam musulmani che l’hanno istigata promuovendo odio e violenza religiosa. I capi musulmani hanno chiamato per nome la violenza sulle chiese, cioè profanazione e blasfemia, notando che il profeta Maometto condanna ogni violenza sui simboli religiosi”.
Il senatore Siraj ul-Haq, capo del Jamaat-e-Islami (JI), il principale partito religioso del paese, è uno dei leader politici che hanno voluto verificare di persona i danni causati dal pogrom contro i cristiani. “Sia nelle prime ore dopo i fatti – racconta monsignor Shaw – sia in un incontro successivo, il 25 agosto, il senatore, esprimendo tutta la sua amarezza, ha sottolineato che dare fuoco a chiese e case in risposta a un caso di presunta blasfemia è contro gli insegnamenti dell'islam. Ha rimarcato che il suo partito crede nei principi del rispetto per l'umanità, della tolleranza e della coesistenza pacifica, e chiede che gli autori delle violenze vengano puniti, secondo la legge”. La Fondazione Al-Khidmat, che si occupa di attività assistenziali ed è affiliata al JI, si è impegnata a ricostruire le case dei cristiani che sono state danneggiate. Il Jamaat-e-Islami convocherà a settembre un congresso nazionale al quale le minoranze religiose saranno invitate a partecipare. “Il Pakistan – ha dichiarato Siraj ul-Haq – appartiene a tutti i suoi cittadini che vivranno insieme e proteggeranno la vita e le proprietà reciproche. Vogliamo trasmettere il messaggio che il Pakistan è dimora di tutte le religioni e che il suo futuro prospero dipende dalla pace. Chiunque distrugga la pace del paese è nemico della nazione”. A tal fine il Jamaat-e-Islami si è fatto promotore dell’istituzione di una Commissione nazionale dedicata agli affari delle minoranze che avrà lo scopo di salvaguardare i diritti dei gruppi religiosi indù, cristiani, sikh e altri ancora.
Il Pakistan è uno dei paesi in cui la persecuzione dei cristiani è definita estrema. La World Watch List, l’elenco dei 50 stati in cui i cristiani sono più duramente perseguitati pubblicata e aggiornata ogni anno dalla associazione Open Doors, lo colloca in settima posizione, tra la Nigeria e l’Iran.