Paesi poveri? Chiedere ai loro governanti
Aumenta il divario tra ricchi e poveri, ma la promozione integrale dei poveri, chiesta da papa Francesco nel messaggio al Forum di Davos, andrebbe chiesta in modo particolare ai leader africani.
“La diseguaglianza estrema non è inevitabile: può e deve essere rapidamente colmata”. Con questa frase si conclude l’introduzione al rapporto sulla disuguaglianza economica “Working for the few” (A vantaggio di pochi) realizzato da Oxfam, la rete di organizzazioni non governative britannica da quasi 20 anni attiva nella lotta alla povertà.
Il testo è stato pubblicato in occasione del summit di Davos 2014, svoltosi dal 22 al 25 gennaio sul tema: “Rimodellare il mondo: conseguenze per la società, la politica e il mondo degli affari”. Quest’anno all’invito del World Economic Forum, fondazione organizzatrice dell’evento, hanno risposto 2.500 personalità della politica e dell’economia: tra di essi, non meno di 80 miliardari – hanno tenuto a precisare le agenzie di stampa – provenienti da diversi paesi e 40 capi di stato e di governo; ai quali, come di consueto, si sono inoltre aggiunti celebri personaggi del mondo dello spettacolo – immancabile Bono degli U2 – impegnati nella sponsorizzazione di cause umanitarie. Ecco i dati sui quali i partecipanti sono stati invitati a riflettere.
Le ricchezze del pianeta ammontano oggi complessivamente a 241 trilioni di dollari. L’1% della popolazione mondiale ne possiede il 46%, per un totale di circa 110 trilioni di dollari. La metà più povera della popolazione ne possiede meno dell’1%, per un valore di circa 1,7 trilioni di dollari, pari alle ricchezze degli 85 uomini più ricchi del mondo messe insieme. Negli ultimi trent’anni, inoltre, sette persone su 10 hanno vissuto in paesi in cui la disuguaglianza economica è aumentata.
In sostanza – spiega il rapporto Oxfam – la ricchezza tende da decenni a concentrarsi nelle mani di un numero sempre più piccolo di persone. Succede nei paesi di più antica industrializzazione: negli Stati Uniti, ad esempio, la ricchezza prodotta dopo la crisi del 2009 è andata per il 95% all’1% di americani che figurano tra i maggiori detentori delle ricchezze mentre il 90% più povero della popolazione si è ulteriormente impoverito. Succede lo stesso in quelli emergenti come l’India dove, su una popolazione di 1,2 miliardi, una sessantina di persone – tanti sono i miliardari indiani – detengono il 26% delle ricchezze nazionali, e in quelli meno sviluppati come la Nigeria, un caso eclatante, quest’ultimo, per l’ampiezza del divario: il 70% dei nigeriani vive infatti sotto la soglia di povertà, vale a dire con meno di 1,25 dollari al giorno, questo trattandosi di un paese da decenni primo produttore di petrolio del continente africano e, al pari della maggior parte dei paesi africani, favorito da un costante e ingente incremento del PIL.
A Davos il crescente divario tra ricchi e poveri è stato da tutti giudicato una delle più serie minacce alla sicurezza e alla stabilità politica ed economica globale. In realtà non sarebbe tanto allarmante se il reddito dei più poveri crescesse meno di quello dei ricchi, a partire però da livelli di vita già discreti per tutti. Invece la metà più povera della popolazione mondiale include ben 870 milioni di persone cronicamente denutrite.
È questo lo scandalo che ha indotto Papa Francesco a indirizzare ai potenti della terra convenuti a Davos un messaggio per esortarli a moltiplicare gli sforzi in favore di una crescita in equità che tuteli la “dignità di ogni persona e il bene comune”. Il Pontefice non si è però limitato a un generico appello. Ha infatti specificato di che cosa c’è bisogno: occorrono – ha scritto – “decisioni, meccanismi e processi volti a una più equa distribuzione delle ricchezze, alla creazione di opportunità di lavoro e a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo”.
È questo uno dei passaggi più rilevanti del testo, che è stato pubblicato sul sito del Forum, perché indica con precisione i tre fronti su cui è indispensabile agire se si vogliono ottenere risultati consistenti e duraturi. Ridistribuzione più equa vuol dire buon governo, impiego responsabile e competente del denaro pubblico da parte di chi riceve il mandato di governare e amministrare. Moltiplicare le opportunità di lavoro è il solo modo di sconfiggere davvero la povertà poiché gli aiuti umanitari, la carità privata e pubblica sfamano, vestono, curano e alloggiano a spese di chi possiede più di quanto consuma, ma non eliminano i poveri, li assistono affinché soffrano della loro condizione il meno possibile. Le maggiori opportunità di lavoro tuttavia non bastano se manca, ed è il terzo fronte su cui agire, la “promozione integrale” dei poveri, che, assicurando prima di tutto istruzione e assistenza sanitaria, li metta in grado di trovare impiego nei settori moderni dell’economia e di uscire quindi dalla precarietà delle economie di sussistenza.
Più che per i manager e i ricchi, sono raccomandazioni che valgono per i leader politici di tutto il mondo. Meglio ancora che a Davos, andrebbero formulate in occasione dei summit a cui partecipano i più diretti responsabili della povertà: ad esempio, il vertice dell’Unione Africana che due volte all’anno riunisce i capi di stato e di governo di paesi ricchi all’inverosimile di risorse naturali eppure tra i più poveri del mondo, con percentuali elevate, in certi casi crescenti, di persone denutrite che sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari internazionali.
Un sondaggio svolto dal centro studi Afrobarometer e pubblicato alla fine del 2013 rivela che un africano su cinque spesso non ha da mangiare, a conferma dei dati forniti dall’Indice globale della fame 2013 che registra un consistente calo a livello mondiale (dal 20,8 del 1990 al 13,8 del 2013), ma evidenzia la persistente gravità, invece, pur con passi avanti, della situazione in Africa. L’Indice calcola, paese per paese, un valore composto dalla percentuale di popolazione denutrita, dalla percentuale di bambini di meno di cinque anni sottopeso e dal tasso di mortalità tra i bambini sempre di età inferiore a cinque anni. Dei 56 stati in cui i livelli di fame oggi sono classificati “gravi”, “allarmanti” ed “estremamente allarmanti”, 38 sono africani (e mancano dati relativi alla Somalia e alla Repubblica Democratica del Congo). Quasi tutti gli altri sono paesi asiatici.