Padre finto eroe, figlio mai rapito: questa è la stampa
L’altro giorno tutti i giornali e tutti i tg hanno riportato con clamore la notizia del tentato rapimento di pargolo a Borgaro Torinese. Tutti i media hanno riferito del presunto bieco kidnapper slavo e dell’eroico papà che lo aveva messo in fuga in extremis con un cazzotto in faccia. Tutte balle, ma non è la prima violta.
L’altro giorno tutti i giornali e tutti i tg, prandiali e serali e notturni, hanno riportato con clamore la notizia del tentato rapimento di pargolo a Borgaro Torinese. Tutti, diconsi tutti, i media hanno riferito del bieco kidnapper slavo e dell’eroico papà che lo aveva messo in fuga in extremis con un cazzotto in faccia. Polizia e carabinieri in caccia, allarme nella popolazione, tutti a chiudere in casa i bambini o a portarli al parco assicurati a un guinzaglio, tutti i genitori a scrutare ansiosi i tratti “slavi” nelle facce dei passanti in avvicinamento. Invece, contrordine compagni: non era vero niente.
Bastava aspettare un giorno, dico uno. Ma è la stampa, bellezza, un ambiente in cui la fretta e la conseguente concitazione regnano sovrani. Forse per questo nelle redazioni trovate personaggi abbigliati nei modi più strani: doppiopetto e cravatta scuri abbinati a jeans rosso magenta, occhiali da vista con montatura giallo canarino, borsalini a quadretti viola, completi gessati su scarpe sneakers bianco-azzurre. Chissà, forse è un modo di allentare la tensione quotidiana. Per dipanare il fattaccio di Borgaro è bastata la normale diligenza del maresciallo: posto il papà-eroe di fronte a una serie di foto segnaletiche, quello ha indicato con sicurezza una faccia. Sì, è lui, gli ho dato un uppercut e ho salvato mio figlio dalla tratta pedofila. Peccato che la faccia indicata apparteneva a uno che stava in galera. Il maresciallo lo sapeva, il papà no. Finale: il papà è adesso denunciato per procurato allarme. Si era inventato tutto. Perché?
Dice che quel giorno aveva perso di vista il bimbo per alcuni minuti e, suggestionato da certi consigli che gli aveva dato un conoscente tempo prima, temeva che qualche giudice potesse accusarlo di omessa custodia di minore e portargli via il figlio. Certo, questa giustificazione meriterà l’approfondimento di uno psicologo all’uopo incaricato dal tribunale, perché getta una singolare luce sulla personalità del procuratore di allarme. Ma la luce più sinistra è quella che illumina i media e il mestiere di giornalista. Già, perché io stesso ho letto la new del cazzotto allo slavo rapitore sulle pagine «nazionali» di un diffuso quotidiano e lo svelamento della bufala nel «dorso» piemontese dello stesso. Nel medesimo giorno. Della serie: non sappia la destra quel che fa la sinistra. La fretta. E la concitazione.
Da piccolo leggevo Nembo Kid, che era l’americano Superman ma, chissà perché, nell’edizione italiana gli avevano cambiato nome. Abitudine assunta al tempo del fascismo, quando si doveva italianizzare tutto? No, perché se «nembo» è parola nostrana, «kid» non lo è. Anzi, poiché «kid» in americano vuol dire «ragazzino», non si capisce cosa c’entrasse con quel nerboruto eroe volante con le mutande rosse. Gli avevano pure tolto la «s» dal petto per coerenza. Ma editors e redattori degli Albi del Falco (la collana di fumetti americani editi in Italia; altra stranezza: a Batman avevano colorato il costume di rosso) erano inquadrati con contratto giornalistico, e la cosa torna. Come tutti sanno, Clark Kent, «identità segreta» di Nembo Kid-Superman, faceva il giornalista del Daily Planet (in Italia diventato Secolo XXI), il che gli permetteva di esibirsi in mirabolanti avventure nel tempo e nello spazio senza mai andare a lavorare. Così, crescevo pensando che da grande anch’io avrei voluto fare il giornalista. In effetti il mestiere, ancora oggi, dà qualche lustro sociale, soprattutto in provincia. E continua a far sognare molti giovani liceali.
Chi aveva la fortuna di venire assunto in qualche testata, però, ben presto si rendeva conto che la sua vita, nella maggior parte dei casi, sarebbe trascorsa seduto a una scrivania, magari separata da un semplice tramezzo da quella del collega, un telefono a destra e uno a sinistra, lo schermo del computer davanti e quello che trasmette i lanci di agenzia dietro o in alto. Inviati speciali? Corrispondenti di guerra? Investigazioni, rischio, inchieste clamorose, comparsate ai talkshow? Sì, ma per alcuni. Talvolta i più bravi, più spesso i più spregiudicati, quasi sempre i più furbi e cinici. Ma è dal tran-tran delle redazioni che, per esempio, è sgorgato il successo mediatico e televisivo di un’astrofisica in pensione come Margherita Hack. Mancavano astrofisici in Italia? No. Allora, perché sempre lei? E, per giunta, intervistata su tutto, dai massimi sistemi filosofici e religiosi fino alla politica spicciola? La fretta. E la concitazione. Ecco: a) il redattore è al suo tavolo, ha due minuti per arricchire il suo pezzo sul meteorite caduto in testa a una capra nel brindisino; b) il giorno prima ha letto un commento della Hack sulla cometa di Halley; c) telefona alla Hack. Due giorni dopo, il Papa parla della razionalità della fede. Bisogna sentire uno scienziato. Chi? La Hack. E così via.
Si potrebbe pensare che oggi questi automatismi redazionali siano venuti meno. Ma non è così. Anzi, se possibile è pure peggio. Il crollo verticale della carta stampata (dovuto sia a internet che alla crisi demografica, ma anche alla crisi economica che ha demolito la raccolta pubblicitaria) ha ridotto i ranghi del giornalismo, già ridotto di suo a casta ereditaria. Nel si salvi chi può ciascuno teme per la propria sedia e ciò aumenta la fretta e la concitazione. Speriamo che casi come la bufala dello slavo rapitore servano a far capire alla gente che, di fronte al «diritto all’informazione», esiste anche un diritto a non sapere quel che è inutile o superfluo, come diceva Solgenitsin. E non si è mai visto qualcosa di inutile o superfluo che non fosse anche dannoso. Voi direte: sì, ma anche voi della Nuova Bussola Quotidiana siete giornalisti. Vero, ma la gran carriera internazionale che abbiamo fatto si vede a occhio nudo.