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USA

Ossessione anti-Trump e svanisce lo scandalo Fbi

La Commissione sui fatti del 6 gennaio (l'assalto al Campidoglio del 2021), ha raccomandato di perseguire penalmente Donald Trump. Si tratta di un caso senza precedenti. Intanto emerge con chiarezza l'interferenza dell'Fbi nelle elezioni del 2020 ai danni di Trump. Ma non fa notizia e non si parla di indagini ufficiali.

Esteri 21_12_2022
Commissione sui fatti del 6 gennaio

Nell’ultimo giorno della Commissione del Congresso per i fatti del 6 gennaio (l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021), l’organo parlamentare americano ha raccomandato all’unanimità al dipartimento di Giustizia di perseguire penalmente Donald Trump. Si tratta di un caso senza precedenti. Ma anche per questo solleva molti dubbi. Intanto un altro scandalo, collegato strettamente alle elezioni del 2020, sta passando stranamente sotto silenzio.

Le accuse che la Commissione raccomanda al Dipartimento di Giustizia, nei confronti dell’ex presidente, sono ben quattro: incitamento all’insurrezione, ostruzione di un procedimento istituzionale (il trasferimento del potere a Joe Biden); cospirazione finalizzata a frodare gli Stati Uniti; cospirazione per rendere false affermazioni. La Commissione ha sentito testimoni e prodotto prove, tuttavia non ha trovato la pistola fumante: un piano di insurrezione in cui figuri esplicitamente il ruolo di Trump. Però, stando alle conclusioni della Commissione, non sarebbe necessario provare l’accordo esplicito di Trump con i rivoltosi: basta dimostrare che abbia fornito “aiuto e conforto”.

Di fatto, si tratta di un processo alle intenzioni, in senso stretto. Si mira a dimostrare che Trump abbia avuto l’intenzione di fermare il processo di trasferimento del potere e che abbia quantomeno apprezzato che qualcuno protestasse per l’esito delle elezioni, giungendo fino all’assalto del Campidoglio. Una delle “prove” consiste nel fatto che per un periodo di tempo prolungato, Trump non abbia chiesto l’intervento delle forze dell’ordine anche se stava seguendo gli eventi in diretta.

Trump non è l’unica persona per cui la Commissione raccomanda un procedimento giudiziario. Nel mirino comunque non c’è Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York e poi avvocato di Trump anche nei giorni caldissimi delle elezioni del 2020. Giuliani definisce “uno dei giorni più disgraziati della storia del Congresso statunitense” la sessione conclusiva della Commissione. “La più illegale e immorale delle commissioni”, come l’ha definita l’ex sindaco. 

Al di là delle prevedibili espressioni di condanna, la critica di Giuliani al lavoro della Commissione riguarda la sua vera parzialità: non solo non sono stati sentiti testimoni di parte favorevole a Trump, ma non sono nemmeno state poste domande fondamentali. Prima fra tutte: come mai non era stata messa in sicurezza la sede del legislativo statunitense, proprio quando si doveva certificare la vittoria di Joe Biden. Secondo quel che Trump stesso afferma, l’allora presidente aveva autorizzato lo schieramento della Guardia Nazionale. Come mai Nancy Pelosi non ha chiesto la sua protezione? Ed era l’allora presidente della Camera ad avere l’ultima parola sulla sicurezza del Campidoglio.

Il parere della Commissione, in ogni caso, è politico e non giudiziario. Il Dipartimento di Giustizia non è obbligato a procedere sulla base del suo suggerimento. Se non vi saranno elementi sufficienti, il processo all’ex presidente non partirà neppure.

Curiosamente, mentre tutti i riflettori sono puntati ancora su Trump, un altro scandalo sta montando sotto traccia e nessuno se ne è ancora accorto. Dalle ultime rivelazioni dei Twitter Files (le comunicazioni interne del social network svelate dal nuovo proprietario Elon Musk) viene confermata la massiccia interferenza dell’Fbi nel funzionamento dei social network e quindi anche nelle elezioni del 2020. Di fatto era la polizia federale americana che spingeva a censurare notizie sensibili, come lo scoop del New York Post sul caso di corruzione e abuso di potere di Hunter Biden (figlio di Joe Biden) che emergerebbe dalle email contenute nel suo computer personale, abbandonato presso un tecnico. Fra l’altro si apprende anche che l’Fbi sapesse, già in anticipo di dieci mesi, del contenuto del computer di Hunter Biden e che fosse convinta della sua autenticità. Dunque lo scoop non è stato censurato, su pressione della polizia federale, perché frutto di disinformazione, ma perché la notizia, che era vera, non doveva uscire.

E per ringraziare dell’impegno, l’Fbi pagava pure. Almeno stando a quel che si legge da una comunicazione interna: quasi 3 milioni e mezzo di dollari, sotto forma di “rimborso” dall’ottobre 2019 al febbraio 2021. Dunque un pezzo di Stato ha pagato un social network perché “lavorasse” su segnalazioni dell’Fbi, provvedendo a censurare e oscurare notizie e messaggi. Il tutto, praticamente in modo univoco, contro i Repubblicani e nel nome della lotta alla disinformazione e a presunte interferenze straniere… che non c’erano, perché dalle comunicazioni interne, ora in chiaro, apprendiamo che Twitter avesse rilevato un bassissimo livello di attività degli account legati al network della propaganda russa.

Cosa c’entra questo scandalo con le accuse a Trump? C’entra eccome perché mostra l’altra faccia delle elezioni del 2020. Se si è giunti ad un livello di tensione tale da assistere a scene da quasi-guerra civile, è perché già allora era evidente quanto pezzi della macchina dello Stato, i media e i social media avessero collaborato per far perdere il presidente in carica, attraverso la manipolazione dell’informazione prima di tutto. E con nuove leggi elettorali che hanno fatto registrare l’anomalia più grande della storia del voto americano, con la metà dei voti spediti per posta in anticipo. Se non si apre un’indagine su questi eventi, non si capisce nemmeno la causa della tensione successiva, dell’assalto al Campidoglio e di quella (altrimenti incomprensibile) “cocciutaggine” di Trump a non ammettere la sconfitta.