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FOSCOLO. ASSOLUTO E ILLUSIONI/ 4

Ortis, il romanzo di una vita che aspira alla redenzione

Si deve sfatare un luogo comune della critica letteraria, ovvero l’idea che l’Ortis sia opera giovanile di un Foscolo ventenne. Il romanzo venne infatti in un ampio arco temporale a partire dalla prima edizione del 1798 fino a quella definitiva del 1816.  In questa edizione, zurichese, l’Ortis emerge nel suo carattere politico.

Cultura 08_03_2015
Ugo Foscolo

Si deve sfatare un luogo comune della critica letteraria, ovvero l’idea che l’Ortis sia opera giovanile di un Foscolo ventenne. Il primo romanzo della letteratura italiana venne, infatti, rivisto in un ampio arco temporale a partire dalla prima edizione del 1798 fino a quella definitiva del 1816. Già nel 1796, nel Piano di studi, Foscolo accenna a un libro «non interamente compiuto» in cui si deve vedere la genesi del successivo Ortis. La prima edizione del 1798 non fu, in realtà, autorizzata da Foscolo, che aveva lasciato a Bologna il manoscritto incompleto all’editore Marsigli che commissionò il completamento dell’opera al giovane scrittore Angelo Sassoli. «Quasi 130 pagine apocrife si aggiunsero così alle 138 foscoliane […]. Eppure Marsigli […] si vide rifiutare l’autorizzazione a pubblicare il romanzo e si ritrovò con un’intera tiratura inutilizzabile nei suoi magazzini» (Paolo Mattei). Marsigli lo fece pubblicare una seconda volta nel 1799 e una terza nel 1801, incontrando questa volta il favore del pubblico. Foscolo diffidò l’editore tacciando i testi come apocrifi e si accinse a terminare l’opera.

Nel 1802 uscì l’edizione completa, autorizzata dall’autore e rivisitata in chiave politica. A differenza degli altri romanzi epistolari europei, l’Ortis ha un carattere eminentemente politico, così come emerge ancor più nella terza edizione del 1816, quella zurighese. La lettera del 17 marzo 1798 è stata aggiunta solo nella revisione del 1816 (come spiega Mario Fubini nel saggio La lettera del 17 marzo e l’edizione zurighese dell’Ortis), quando i perentori ed aspri giudizi su Napoleone, in esilio nell’isola di sant’Elena, potevano essere espressi con maggiore serenità. Ortis si lamenta per la schiavitù dell’Italia e si dissocia da quanti «esclamano d’essere stati venduti e traditi», ma non hanno mai imbracciato le armi per difendersi. Aspra è la requisitoria rivolta a moltissimi italiani che «presumono che la libertà si possa comperare a danaro; […] che le nazioni straniere vengano per amore dell’equità a trucidarsi scambievolmente su’ nostri campi onde liberare l’Italia!». Caustico è il giudizio rivolto al «Giovine Eroe nato di sangue italiano», «nato dove si parla il nostro idioma». Dotato di «un animo basso e crudele», Napoleone ha «il vigore e il fremito del leone» e, nel contempo, «la mente volpina»: un vero e proprio principe di Machiavelli. Non si può credere che Napoleone guardi alla sua patria, perché «la Natura lo ha creato tiranno: e il tiranno non guarda a patria; e non l’ha». 

I toni sono ancora una volta alfieriani e denunciano una stima sconfinata per quel grande, Alfieri, «l’unico mortale» che Ortis desideri conoscere (lettera del 27 agosto 1798). Qualche mese più tardi, Ortis incontrerà Parini (lettera del 4 dicembre 1798), «il personaggio più dignitoso e più eloquente» che abbia mai conosciuto, che freme «per le antiche tirannidi e per la nuova licenza», che si lamenta per la servitù della cultura e della letteratura, per l’avvilimento delle grandi passioni e per la corruttela dei costumi. Il Parini, «generoso Italiano», fortemente romanticizzato da Foscolo, non discerne più neppure «un barlume di libertà» per l’Italia. I termini “Italia” e “Italiano” attraversano tutto il romanzo con un’audacia non certo comune. Leggiamo nella famosissima Lettera di Ventimiglia (19 e 20 febbraio 1799): «I tuoi confini, o Italia, son questi! Ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni». Gli Italiani vivono della memoria della «libertà e della gloria degli avi», il cui splendore sottolinea «l’abbietta schiavitù» contemporanea. Il triste e funereo presagio è che possano perdere «e le sostanze, e l’intelletto, e la voce» ed essere «trafficati come i miseri Negri». Il pessimismo ortisiano investe così la storia universale, ove non esistono diritto, giustizia e autodeterminazione dei popoli. «Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra». Il popolo che ora comanda sta maturando la propria servitù del futuro. Animato dallo stesso giudizio pessimistico è il discorso sulle rivoluzioni in cui «gli uomini che la incominciano […] fanno de’ loro teschij sgabello al trono di chi la compie». 

Come ha ben dimostrato la studiosa Terzoli, dalla terza edizione Ortis si configura sempre più come un alter Christus, un innocente che muore vittima dell’ingiustizia e della mediocrità del proprio tempo tanto che esclama: «Non ho rapito il pane agli orfani e alle vedove; non ho perseguitato l’infelice; non ho tradito; non ho abbandonato l’amico […]. Ho spartito il mio pane con l’indigente; ho confuse le mie lagrime alle lagrime dell’afflitto». L’allusione alle opere di misericordia corporale non è che uno dei tanti richiami evangelici, perché i riferimenti alla passione di Cristo così come è raccontata nei Vangeli sono fittissimi nella parte conclusiva del romanzo. In questa ricerca di una libertà più totale, non concessa su questa Terra, non può mancare il richiamo al sommo padre Dante. Ortis, recatosi in visita alla madre a Venezia, integrerà il verso dantesco «Libertà va cercando ch’è sì cara» con «l’altro che gli vien dietro: Come sa chi per lei vita rifiuta». 

Nell’edizione del 1802 Ortis si suicida venerdì 23 marzo del 1799. Nell’edizione definitiva l’autore corregge la data in 25 marzo 1799, il venerdì santo per eccellenza, quando la morte di Cristo coincide con l’incarnazione. Le prime e le ultime espressioni di Jacopo nel romanzo nascondono le parole di Cristo sofferente in croce, rispettivamente nel Vangelo di Giovanni e di Luca. «Ora tu accogli l’anima mia» è la frase che chiude l’ultima lettera di Ortis rivolta a Teresa: qui il giovane rivela tutta la sua esigenza di espiazione e di redenzione. Poco prima, Jacopo scriveva all’amata: «Fra poco saremo disgiunti dal nulla o dall’incomprensibile eternità». E ancora: «Io prego il sommo Iddio, se non ci riserba alcun luogo ov’io possa riunirmi teco per sempre, lo prego dalle viscere dell’anima mia, e in questa tremenda ora della morte, perché egli m’abbandoni soltanto nel nulla». Anche nell’ora della morte Ortis percepisce la presenza di Dio Padre. Come racconta Lorenzo Alderani nella pagina conclusiva del romanzo, nella camera di Ortis «stava sullo scrittojo la Bibbia chiusa, e sov’essa l’oriuolo; e presso, varj fogli bianchi; in uno de’ quali era scritto; Mia cara Madre; e da poche linee cassate, appena si potea rilevare, espiazione; e più sotto: di pianto eterno».