Orlando, il fragile islam e la nostra responsabilità
Dopo la strage al locale gay: l’irrisolto problema della fragilità dell’islam di fronte alle sfide del mondo moderno è giunto ancora tragicamente alla ribalta. Ma l'Occidente non ha nulla da dire ai nuovi poveri. Ecco perché in questo vuoto la gente di fede ha una grande responsabilità. Che però Chiesa e cristiani faticano a assumersi.
Dopo l’efferata strage di Orlando - circa cinquanta persone sterminate a raffiche di mitra in un locale frequentato da omosessuali – la macchina dell’attribuzione ipso facto di tale crimine all’”omofobia” si è era subito messa in moto, ma si è visto che non funziona. Con felina rapidità in Italia il Tg2 della Rai ci si è buttato a capofitto, ma poi perfino la Repubblica ha lasciato perdere. Negli Stati Uniti è stata abbandonata quasi immediatamente.
L’attenzione del proverbiale uomo della strada si è infatti subito concentrata non sul cosiddetto orientamento sessuale delle vittime bensì sul legame con il terrorismo islamista che l’assassino, Omar Mateen, cittadino americano di origine afghana, ha rivendicato con una telefonata alla polizia alla vigilia della strage. L’irrisolto problema della fragilità dell’islam di fronte alle sfide del mondo moderno è giunto ancora una volta tragicamente alla ribalta oscurando ogni altra possibile questione.
La massima parte degli osservatori è concorde nel ritenere che l’episodio giocherà a favore di Trump, il quale come è noto va ripetendo che, se eletto, intende bloccare tra l’altro l’immigrazione di musulmani negli Usa. Al di là di questo specifico aspetto della questione, che in quanto non americani ci riguarda solo indirettamente, la strage di Orlando induce anche a ben più ampie riflessioni.
La facile disponibilità negli Stati Uniti di fucili d’assalto e di altre armi da guerra contribuisce senza dubbio ad aggravare il fenomeno, ma sta di fatto che da un estremo all’altro dell’Occidente industrializzato, dove pure la vita d’ogni giorno è oggi straordinariamente pacifica rispetto al passato, troppo spesso si assiste ad esplosioni di furia omicida. Beninteso, non è all’omicidio in quanto tale cui ci riferiamo, che purtroppo sino alla fine della storia mai scomparirà dalla faccia della terra, ma alla furia di chi pretende di risolvere un suo disagio autoinvestendosi del ruolo di giustiziere.
E che poi dopo aver ucciso spesso ci si uccide quasi si volesse spazzare via la realtà in quanto tale. In un Paese come il nostro l’indisponibilità di armi da guerra riduce il numero delle vittime: non ci sono per nostra buona sorte le condizioni per così dire “tecniche” per una strage come quella di Orlando. Tuttavia il seme di tale follia è il medesimo.
C’è perciò qualcosa di patetico nella pretesa della cultura progressista americana, devotamente riecheggiata dal grosso dei corrispondenti a New York e a Washington dei nostri giornali e telegiornali, secondo cui la soluzione del problema sarebbe il blocco della vendita della armi da fuoco. E lo stesso analogamente si può dire della pretesa del progressismo italiano di risolvere ogni cosa con una nuova legge: la questione della sicurezza sulla strada con l’invenzione dell’ “omicidio stradale”; o quella dell’assassinio di donne da parte di uomini con l’invenzione del “femminicidio”, mostro giuridico che farebbe venire meno il fondamentale principio dell’unicità della persona umana. Dovrebbe invece essere evidente che, a monte di ogni singola specifica causa scatenante, il problema-chiave è l’attuale incapacità dell’Occidente sul piano educativo, intendendosi con tale espressione la scuola, ma non la scuola soltanto.
Oggi infatti, nel bene e nel male, molta parte dei contenuti proposti all’apprendimento percorre altri itinerari. D’altra parte l’incapacità di cui dicevamo non è solo di metodo ma di sostanza. Ben diversamente da come pretendeva, il pensiero dominante dell’Occidente contemporaneo - ossia la cultura post-illuminista a livello alto e l’edonismo di massa al livello basso – non ha più nulla da dire ai nuovi poveri del nostro tempo che, siano essi autoctoni o immigrati, troppo spesso sulla loro strada non incontrano niente di umanamente affascinante e interessante.
Il principio di autoderminazione come unica “verità”; l’equivalenza di ogni scelta di vita; la pretesa neo-autoritaria secondo cui se non sei d’accordo con me allora mi odi (che è alla base dell’equivoco dell’ “omofobia”): tutti i pilastri della cultura dominante di massa non soltanto non attraggono ma anzi scandalizzano i nuovi arrivati e i loro discendenti. Quel che resta della memoria familiare e storica aiuta magari gli autoctoni a capire che l’Occidente non è questo soltanto, ma si tratta di un antidoto che per definizione non giunge ai nuovi arrivati.
Nel caso dei discendenti di immigrati musulmani la ricaduta verso forme di integralismo e poi di terrorismo islamista è insomma soprattutto l’esito dell’assenza sul loro cammino di altre proposte educative. Come cristiani tutto questo ci interroga molto direttamente. Senza pregiudizio per ogni doveroso approfondimento del dovere del soccorso nonché del diritto di stabilire in quale misura dal dovere del soccorso derivi l’obbligo di un’accoglienza sine die, abbiamo il preciso dovere di non auto-censurarci.
Nell’immediato la pace civile va difesa, ma a lungo termine va costruita culturalmente dando in primo luogo risposte alle grandi domande sul significato dell’esistenza. Poi però c’è il problema di chi ha i mezzi per farlo. Fermo restando che ogni uomo di buona volontà deve fare la sua parte, la gente di fede ha una forte responsabilità specifica, di cui invece purtroppo oggi né la Chiesa in quanto tale né i cristiani come persone e come comunità tirano le conseguenze in modo adeguato.