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LA DIFFERENZA

Orgoglio italico? No, vergogna per la tradizione spezzata

L’emergenza da Covid-19 ha fatto fiorire, complice il marketing, il fenomeno dell’«orgoglio italiano». In realtà tutto quello che mostriamo con orgoglio al mondo è frutto dell’ingegno, dell’amore e del lavoro di italiani morti da secoli, figli di un’Italia che era cattolica. La modernità, invece, disprezza la tradizione e quindi non sa perpetuarne i frutti.

Editoriali 23_07_2020

Tra i vari fenomeni legati all’emergenza Covid-19 ce n’è uno piuttosto particolare che, forse, merita qualche riflessione. Si tratta del cosiddetto «orgoglio italiano» che, solitamente, rispunta fuori soltanto in occasione dei mondiali di calcio. Con la quarantena, dopo i coretti e le scritte «Andrà tutto bene», sui balconi sono apparse le bandiere italiane, complici gli esperti di marketing di quotidiani e riviste che hanno approfittato di questa fiammata di patriottismo per aumentare le vendite. Ho letto da qualche parte che l’esposizione delle bandiere significherebbe l’unione della nazione nella lotta contro il virus; tuttavia, sinceramente, fatico a capire dove starebbe la bellicosità del chiudersi in casa. Altrove, l’esposizione della bandiera nazionale è considerata indice di «orgoglio nazionale». Anche in questo caso ho delle perplessità: nella mia vita non ricordo momenti nei quali l’Italia è stata più umiliata e bistrattata, all’estero e qui da noi, come negli ultimi mesi.

Da quando accettare passivamente di tutto è motivo di orgoglio, anziché di vergogna? Comunque devo essere proprio fuori strada, perché più i nostri Paesi fratelli europei ci isolavano e disprezzavano (ricordiamo, ad esempio, la «pizza al coronavirus»), più si moltiplicavano i video che mostravano l’orgoglio di essere italiani. E su questi mi soffermerei un pochino.

Alcuni di questi video «orgogliosi» mostravano la varietà delle prelibatezze italiane. D’accordo: il cibo è cultura, storia, geografia; la cucina italiana non è seconda a nessuno per varietà, qualità e fantasia; sono tra coloro i quali considerano una fortuna e un vanto il mangiare (e bere) in Italia. Ma non è un po’ riduttivo rispondere al disprezzo dei nostri amici europei con i soliti stereotipi «spaghetti, pizza e caciocavallo»? Non che sia poco, ma l’Italia non può vantare altri contributi alla cultura mondiale?

Infatti ci sono anche altri video che mostrano, come fonte di «orgoglio nazionale», l’antichissima e ricchissima storia della nostra penisola, le cento città con i loro campanili, i monumenti e i paesaggi; ricordano il diritto, la pittura, la musica, la moda… Beh, sembra ragionevole ricordare con orgoglio tutte le cose belle e importanti che l’Italia ha dato al mondo. Invece - sarò strano - questi video non suscitano in me l’orgoglio di essere italiano, ma la tristezza e la vergogna. Mi spiego. Tutta la trafila di monumenti e opere d’arte mostrati in questi video, che attirano nel nostro Paese milioni di turisti ogni anno, sono testimonianza della grandezza dell’Italia… di un tempo.

Tutto quello che mostriamo con orgoglio al mondo è frutto dell’ingegno, dell’amore e del lavoro degli italiani morti e sepolti da secoli. Certo, fino al Cinquecento l’Italia era un faro, nel mondo; diciamo fino alla fine del Settecento, poiché da noi - grazie al fatto che l’Italia è rimasta cattolica - la modernità è arrivata con un secolo e mezzo di ritardo, rispetto al resto dell’Europa. Ma poi? C’è qualcosa, dall’Ottocento in avanti, che varrebbe il viaggio?

Lasciamo perdere l’arte (pittura, architettura, paesaggio, musica…): la meccanica e la moda italiana hanno tenuto alta la bandiera nazionale anche nel Novecento! Benissimo, ma ora? Siamo in grado di esprimere eccellenze a livello mondiale? Certo, la cucina italiana lo è. Ma anche in questo caso ho due obiezioni. La prima: il meglio della cucina italiana vive di tradizione e territorio, cioè del passato. Il che conferma quello che scrivevo prima: la nostra è una grandezza… tramontata. Magari in qualche campo - come nella cucina - c’è ancora un po’ di crepuscolo; ma non è un’alba. La seconda: siamo davvero convinti che in Italia si mangi bene? Nelle case e nelle famiglie italiane, intendo. Ciò che vedo io è il diffondersi, specialmente tra i bambini, di evidenti disturbi alimentari e di cibi pronti nei supermercati; un numero crescente di persone incapaci di far bollire un uovo e confezionare un piatto di pasta; la riduzione del gusto a dolce e salato.

Arrivo al punto. L’eredità va, in qualche modo, meritata. Non ha senso gloriarsi di ciò che hanno fatto i nostri nonni, se noi non siamo in grado di fare altrettanto. Il merito va a loro, non certo a noi. A noi spetta, piuttosto, la vergogna di aver sprecato un patrimonio culturale immenso, di averlo lasciato inaridire, di averlo disperso.

È vero: l’eccellenza non si improvvisa. È necessariamente frutto di generazioni di passione, studio, intuizioni e duro lavoro. Ma è proprio per questo che è un frutto delicato: non nasce spontaneamente, ha bisogno di continue cure e attenzioni. Non basta ereditare: bisogna mantenere e alimentare l’eredità che abbiamo ricevuto. Altrimenti si disperde e si dissecca.

Questo processo (eredità, conservazione, consegna) ha un nome strano, che abbiamo imparato a disprezzare. Si chiama «tradizione», dal latino tradere. La modernità disprezza la tradizione, per questo non riesce a produrre frutti paragonabili a quelli del passato: ha deciso di non nutrirsene. Abbiamo spezzato la tradizione che ci legava a quell’Italia della quale andiamo così fieri. Che motivo d’orgoglio c’è, in tutto questo?