Ong e Turchia: ecco perché fa gola la rotta orientale
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Nuova emergenza al largo di Roccella Ionica per salvare tre pescherecci con a bordo circa 1000 clandestini. I servizi segreti italiani avevano lanciato l'allarme sulle crescenti migrazioni clandestine nella rotta orientale. Perché c'è la Turchia che fa da centro di raccolta e partenza e perché le Ong si sono spostate soprattutto su quel tratto di Mediterraneo. Ma si utilizzano imbarcazioni di qualità più scadente per aumentare il profitto dei trafficanti e questo rende il naufragio più concreto.
- CRIMINALITÀ E IDEOLOGIA ALIMENTANO L'ILLEGALITÀ, di Giancarlo Cerrelli
La tragedia del naufragio di Cutro ha riportato l’attenzione sulla rotta orientale del Mediterraneo e sugli emigranti irregolari che la scelgono. È la rotta che parte principalmente dalla Turchia e che raggiunge Grecia, Cipro, le coste italiane di Calabria, Puglia e Sicilia. È la stessa rotta che stanno seguendo i tre pescherecci che ieri a 100 miglia a sud da Roccella Ionica stanno arrivando dalle coste della Cirenaica e che stanno costringendo in queste ore le autorità italiane a un dispiegamento imponente di mezzi di soccorso: cinque motovedette, tre navi, un aereo della Guardia costiera e una nave della Marina militare. A bordo ci sono circa 1000 clandestini in arrivo.
I servizi segreti italiani nel loro ultimo rapporto annuale, presentato al Parlamento il 28 febbraio, hanno spiegato che si sta registrando un incremento del traffico su questa rotta in gran parte, e forse essenzialmente, dovuto all’aumento delle navi delle Ong che vi stazionano, pronte a trasferire a bordo i passeggeri dei trafficanti. Sulle reti social e sul web dove pubblicizzano i loro servizi, i trafficanti infatti spesso citano la presenza di navi delle Ong come garanzia di un viaggio sicuro.
«La presenza di navi umanitarie – si legge nel rapporto dei servizi segreti – costituisce un vantaggio logistico per le organizzazioni criminali che gestiscono i viaggi illegali perché consente loro di usare imbarcazioni di qualità più scadente accrescendone gli illeciti profitti. Tuttavia, questo rende il rischio di naufragio più concreto».
Nel 2022 su questa rotta hanno viaggiato 42.800 emigranti, oltre il doppio rispetto al 2020 e al 2021, anni in cui si era invece verificato un netto calo: dagli 83.333 sbarchi in Europa nel 2019 a poco più di 20mila. L’anno più critico, come qualcuno ricorderà, era stato però il 2015, con 885.386 emigranti arrivati dalla Turchia in Grecia, in prevalenza provenienti da Siria, Afghanistan e Iraq. L’anno successivo invece si ebbe un drastico calo. Dalla Turchia partirono “solo” 182.227 persone, quasi tutte nei primi tre mesi dell’anno, però, perché il 4 aprile 2016 entrò in vigore un accordo tra Unione Europea e Turchia in base al quale, in cambio di un primo contributo UE pari a tre miliardi di euro, la Turchia accettava di riprendersi da quel momento in poi tutti gli emigranti illegali che riuscivano a raggiungere la Grecia, inclusi quelli sbarcati a partire dal 20 marzo, di fermare e riportare a riva le imbarcazioni dei trafficanti intercettate nelle proprie acque territoriali e di chiudere anche le frontiere di terra con l’Unione Europea. Altri 348 milioni di euro furono stanziati dall’UE l’ottobre successivo per la creazione di una Rete di protezione sociale di emergenza destinata ad assistere in Turchia un milione di rifugiati tra quelli più in difficoltà.
Dal giorno dell’entrata in vigore dell’accordo al 31 dicembre 2016 diminuirono drasticamente gli sbarchi in Grecia, in tutto circa 22mila, ma non altrettanto le partenze dalla Turchia. Inoltre, i trafficanti reagirono intensificando i viaggi lungo le rotte centrali del Mediterraneo, partendo da Libia, Egitto, Algeria e Tunisia. La destinazione preferita per tutti da quel momento è stata l’Italia. Nel mese di luglio 2016, ad esempio, il 93% degli emigranti illegali arrivati in Europa è approdato sulle coste italiane: in totale nel 2016, 181.436 mentre nel 2015 erano stati 153.842.
Benché molti pensino che gli emigranti illegali siano tutti africani, per lo più provenienti da paesi sub-sahariani, in realtà circa il 30% sono di origine asiatica. Dall’inizio del 2021 a oggi i principali paesi da cui provengono sono: Bangladesh, Siria, Afghanistan, Iran e Pakistan. Bengalesi e pakistani sono anche tra gli emigranti più numerosi arrivati in Italia dall’inizio del 2023 (gli arrivi via mare dal 1° gennaio al 10 marzo è 17.682 su un totale europeo di 20.517).
Le rotte di terra asiatiche di solito sono meno difficili e pericolose rispetto a quelle africane. Come tutti i percorsi clandestini via mare e via terra, il loro costo varia in base alla lunghezza, alle difficoltà da superare e ai servizi forniti. Conta anche il tempo impiegato: per raggiungere la destinazione: possono volerci anni, ad esempio per chi parte dalla Cina o dal Vietnam. Quale che sia il punto di partenza, la maggior parte degli emigranti asiatici si dirigono verso la Turchia. Istanbul è il grande centro di raccolta. Su di esso confluiscono anche degli africani, persino provenienti dall’Africa occidentale, in particolare nigeriani. A Istanbul, nascosti in case private e alberghi, gli emigranti aspettano se necessario per settimane il giorno propizio per imbarcarsi e compiere l’ultima tappa. Fino all’ultimo c’è il rischio di essere intercettati dalle forze di sicurezza e arrestati. Importante è l’organizzazione a cui si sono affidati, i contatti di cui dispone, la rete di collaboratori su cui può contare. Quelle meglio organizzate a Istanbul si dotano tra l’altro di collaboratori chiamati “osservatori” il cui unico compito è controllare le strade per individuare l’eventuale presenza di poliziotti, indicare i percorsi sicuri e dare il via libera ai mezzi che trasportano gli emigranti al porto dove verranno affidati agli scafisti.
Inizia così l’ultima tappa di un viaggio quasi sempre iniziato settimane e mesi prima e quasi sempre lungo migliaia di chilometri. Secondo il rapporto dei servizi di sicurezza italiani, i più fiduciosi di arrivare senza incidenti a destinazione, certi di essere trasbordati sulle navi “umanitarie” sono invece proprio quelli più a rischio.