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FAME NEL MONDO

Olio tunisino, Slow Food e solidarietà a senso unico

L’Unione Europea aumenta per due anni la quota di olio tunisino che si potrà importare a dazio zero, quale gesto di solidarietà per un paese colpito dal terrorismo islamico. Ma Carlo Petrini, fondatore di Slow Food (che compie 30 anni) parla a favore del protezionismo. Contraddizioni di un pensiero molto diffuso.

Creato 11_03_2016
Carlo Petrini

L’Unione Europea aumenta per due anni la quota di olio tunisino che si potrà importare a dazio zero, fino a 91.700 tonnellate (35mila in più rispetto alla quota annuale precedente). L’Ue ha approvato la nuova misura in solidarietà alla Tunisia, impegnata in prima linea nella lotta al terrorismo dello Stato Islamico. Ma non tutti i solidaristi sono contenti. Il primo a mostrare scetticismo, quando non aperta ostilità, è Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food. In questi giorni è tornato, dopo Expo 2015, ancora sotto i riflettori dei media, perché la sua associazione ha appena compiuto i 30 anni di vita e oggi, grazie alla Fondazione Terra Madre è diffusa in 170 paesi. Il libro-manifesto di Petrini, Buono, Pulito, Giusto, è stato ristampato per l’occasione. Ed è sempre sua la guida alla lettura dell’enciclica Laudato sì.

 “L’Europa alza i muri, il cibo unisce” era il leitmotiv della sua ultima conferenza a Torino. Ma allora, perché questo scarso entusiasmo all’ingresso dell’olio tunisino? Il padre di Slow Food si è già detto, in altre occasioni, esplicitamente a favore del protezionismo. Alla vigilia dell’arrivo dell’olio tunisino in Europa, alla rivista Leggo, Petrini rispondeva: “C’è una via di mezzo. Non posso permettere che le comunità agricole locali, come quella italiana, siano sotto schiaffo da parte di Paesi che fanno dumping. Se si esporta sotto costo grazie a regole igienico-sanitarie più blande, sfruttando le persone, non sono d’accordo. E’ diverso che accogliere il lavoro degli altri”, ma aveva appena detto, nella stessa intervista: “Alcune nazioni, che pure hanno un grande passato di popoli dediti all’agricoltura, non hanno imparato niente dal senso di reciprocità che la cultura contadina porta in sé. Spero che questo sentimento possa prevalere: i muri non servono e sono un disastro culturale”. E però, che senso ha parlare di reciprocità se un contadino tunisino non può vendere il suo olio anche in Italia? Questa è solo l’ultima delle tante contraddizioni della filosofia Slow Food, che pare essere diventata un pensiero dominante, prima durante e dopo l’Expo 2015. 

In un'intervista rilasciata al giornalista economico del Corriere della Sera Dario Di Vico, proprio a proposito dell’esposizione universale, l’anno scorso Petrini diceva: “Possono stare assieme l’agricoltura industrializzata e quella di piccola taglia? Sono portato a pensare di no” e “nel mondo ci sono 500 milioni di piccole imprese contadine in sofferenza e sotto lo schiaffo del mercato mentre l’agricoltura industriale guadagna producendo in maniera massiva cibo di scarso valore nutrizionale che va alla povera gente. Fanno profitti consumando risorse a manetta”. Ma quelle centinaia di milioni di piccole imprese, secondo lo stesso Petrini, non possono trovare altri mercati se non quello locale. Non possono esportare. Per lo meno, non vorrebbe che esportassero i loro prodotti dalle nostre parti, perché, sempre nella stessa intervista, a proposito dell’agricoltura della Pianura Padana diceva: “Le stalle chiudono, il latte è pagato 30 cent al litro e ne arriva tantissimo dai paesi dell’est pagato a 20 cent al litro. E dopo le stalle cominciano a chiudere anche i caseifici del Parmigiano. Le derrate non possono avere lo stesso trattamento di mercato dei manufatti, sono parte di una presenza identitaria, paesaggio e memoria. E allora dobbiamo concepire forme di piccolo protezionismo a favore della produzione agricola locale”.

Ma, appunto, che senso ha lamentare la morte di tante imprese agricole se non si lascia loro la possibilità di vendere anche all’estero? Dimostrando una visione molto dirigista dell’economia, il gastronomo piemontese sceglie a priori ciò che si dovrebbe vendere anche all’estero e ciò che si dovrebbe tenere in casa propria: “La mia posizione è semplice e l’ho detta anche a Oscar (Farinetti, di Eataly, ndr): che senso ha esportare a New York l’acqua Lurisia, la trovo una cosa ridicola. Il Barolo sì, quello si può esportare. E’ una griffe. Ma la farina, i pomodori, l’acqua e il latte li posso comprare direttamente dai contadini americani. Il prodotto fresco non deve viaggiare”. Il fatto è che i prezzi, il mercato in generale, è quel meccanismo che decide, con l’incontro di domanda e offerta di miliardi di persone, cosa esportare e cosa no, cosa vendere e a che prezzo. Nessun singolo pianificatore, per quanto geniale sia, potrebbe sostituirsi a questo “cervello collettivo” ottenendo risultati altrettanto precisi. 

Il problema di questa filosofia ormai diffusa, adottata nel suo programma anche da un candidato alla presidenza degli Usa (il socialista Bernie Sanders), è la sua natura intrinsecamente egoista. Si tratta, infatti, di un solidarismo solo a parole, ma nei fatti il militante del “cibo lento” vuole i dazi se non l’autarchia. Ragiona per il bene dei contadini che rappresenta e non vuol sentir parlare di concorrenza, in un mercato, quale è quello europeo, già ampiamente protetto e sussidiato (una mucca, in quanto mucca, riceve ogni giorno più euro della media dei salariati in tutto il mondo). La visione di Slow Food immagina che tante piccole economie chiuse e tradizionali possano soddisfare i bisogni di ogni singola popolazione. Ma senza un mercato aperto e senza la produzione agricola industrializzata, non avremmo avuto quella vera “rivoluzione verde” che sta liberando l’umanità dalla fame. Giusto per rendere l’idea delle dimensioni del fenomeno, la frazione dell’umanità con problemi di sotto-nutrizione è scesa dal 50% del 1947 al 37% del 1970 per giungere al 12% del 2013 (dati Fao, 2013). Una tendenza che pare inarrestabile, sempre che qualcuno non la fermi deliberatamente.