"Ogni creatura è bene". Questa è la rivoluzione
Come in India, in tutte le società arcaiche le donne subiscono discriminazioni e violenze. Ma se per noi questo è inconcepibile, è perché siamo eredi di una rivoluzione antropologica che ha conquistato il concetto di persona. E siamo eredi del cristianesimo, che trova in Maria il suo modello di donna.
“37 milioni di luci” è il titolo della campagna lanciata in India il 27 gennaio dall’arcidiocesi di Mumbai per sensibilizzare la popolazione contro tutte le forme di violenza sulle donne. È stata inaugurata accendendo nelle parrocchie 37 milioni di candele e lumi perché tanti nel paese sono gli uomini in più rispetto alle donne, in base all’ultimo censimento nazionale completato nel 2011: un dato preoccupante, risultato in primo luogo delle tante bambine abortite e uccise appena nate per scansare l’onere di allevarle e dotarle al momento delle nozze. Bisogna aggiungere a questa causa primaria altri fattori quali l’elevato numero di donne suicide e un tasso di mortalità materna scandalosamente alto: 230 donne morte ogni 100.000 bambini nati vivi.
La campagna “37 milioni di luci” intende contrastare la violenza sulle donne soprattutto educando al rispetto della dignità e della sacralità della persona umana. In India – ha spiegato padre Anthony Charanghat illustrando l’iniziativa all’agenzia di stampa AsiaNews – “crimini come lo stupro, gli omicidi per dote, gli attacchi con acidi, i delitti d’onore, i matrimoni con bambine sono all’ordine del giorno: la violenza contro le donne è antica come il patriarcato”.
Il giorno prima l’India celebrava la 63ma Festa della Repubblica e nel suo consueto messaggio per l’occasione la Conferenza episcopale ha ribadito la propria condanna per ogni forma di violenza sulle donne: “le violenze contro le donne e i bambini, non solo gli stupri, ma tutti i casi di feticidi e infanticidi femminili, molestie, rapimenti, delitti d’onore e per dote, sbricioleranno i pilastri della società e della nazione – si legge nel documento – e fermeranno il cammino verso la pace e la prosperità”.
Come in India, in decine di altri paesi le violenze su donne e bambini sono all’ordine del giorno: lapidate perché accusate di adulterio, percosse e uccise dai parenti perché disobbedienti, ribelli, colpevoli di comportamenti ritenuti indecorosi, tali da compromettere l’onore familiare; private delle libertà personali, costrette a matrimoni combinati, a non uscire di casa se non accompagnate o seguendo percorsi definiti, a occhi bassi, rese irriconoscibili dai veli che le ricoprono fino a celare mani e occhi; discriminate nell’accesso all’istruzione e alle cure sanitarie fin da piccole; male accolte alla nascita, uccise nel grembo materno o appena nate perché indesiderate; escisse, infibulate, maritate bambine dopo averne contrattato il prezzo con il pretendente, uccise dai mariti per una dote non pagata, ripudiate…
Nel comune sentire delle società in cui vivono, quelle donne, quelle bambine – ed è questo che nel mondo occidentale si stenta a credere e a capire – sopportano non i comportamenti trasgressivi di individui isolati e universalmente deplorati, ma la normalità di rapporti e sistemi sociali consolidati, apprezzati, che gran parte di loro stesse approvano, essenziali nel loro ruolo di madri nel tramandarli da una generazione all’altra.
Vivono così centinaia di milioni di donne – oltre che in India, in Pakistan, Bangladesh, Arabia Saudita, Somalia, Afghanistan, India, Mali, Niger… – malamente tutelate da leggi che ne dovrebbero difendere i diritti se i governi non fossero riluttanti a farle rispettare o, peggio ancora, perché nate per cattiva sorte in paesi in cui violenze, discriminazioni e libertà negate sono non soltanto consuetudini, ma legge dello Stato.
Dimentichiamo, noi cittadini occidentali, di essere i fortunatissimi eredi di una rivoluzione antropologica iniziata molti secoli fa che, procedendo dal concetto di persona, afferma l’esistenza di diritti inerenti alla condizione umana, quindi universali e inalienabili: una rivoluzione che fa fatica a conquistare il resto del mondo, contrastata come è da tradizioni millenarie, onorate per rispetto e timore degli antenati fondatori e, tra le popolazioni di fede islamica, per la convinzione che siano volontà divina.
Senza questa rivoluzione, nelle società arcaiche i diritti dipendono invece dagli status e questi a loro volta sono determinati in gran parte – in molte società si vorrebbe, idealmente, del tutto – da fattori ascritti, immodificabili e indipendenti dalla volontà e dalle capacità personali: la famiglia d’appartenenza e il suo status all’interno della comunità, l’ordine di nascita rispetto ai fratelli e il sesso. Nella immutabile gerarchia sociale, conta sempre di più chi è nato prima e le donne sono sempre inferiori agli uomini: spesso la loro è una condizione presociale, come quella dei bambini maschi prima dell’iniziazione.
Il contributo del cristianesimo alla rivoluzione antropologica che ha liberato la persona e ne ha affermato il valore supremo è immenso. La frase più rivoluzionaria della storia della cultura – ci ricorda don Giussani – è quella di San Paolo: “ogni creatura è bene”.
Per l’umanità intera, ma soprattutto per le donne questa frase ha fatto la differenza. “Ogni creatura è bene”, uomo o donna che sia. A dimostrazione di ciò, il cristianesimo prevede per maschi e femmine gli stessi riti di iniziazione alla comunità dei credenti, il sacramento del battesimo prima e poi la cresima: un’eccezione rispetto alle tradizioni millenarie di innumerevoli società che a ogni stadio della vita ribadiscono con riti e cerimonie distinte il posto diverso assegnato ai due sessi.
Di straordinaria rilevanza per la condizione femminile è anche il valore riconosciuto dal cristianesimo alla donna, anche se non diventa moglie nè madre: accada ciò per scelta o involontariamente. Considerando la sorte tuttora riservata alle donne sterili in numerose società, si capisce l’importanza di una religione che ritiene utile e degna persino l’esistenza di una donna che non genera figli per un uomo. Le prime religiose missionarie in Africa proposero inconsapevolmente un modello di femminilità e di rapporti tra uomo e donna inaudito e sconvolgente per il fatto di non essere sposate nè madri, di non appartenere a nessuno e di meritare tuttavia il rispetto e la considerazione dei missionari maschi.
Un ulteriore elemento del messaggio cristiano decisivo ai fini della condizione femminile è il valore attribuito al lavoro che – ci ricorda ancora don Giussani – Cristo definisce come attività del Padre, di Dio, mentre in tutta la cultura mondiale è concepito come schiavitù. Rendendo il lavoro degno dell’uomo e l’uomo fiero di lavorare, il cristianesimo induce i maschi a partecipare maggiormente alle attività lavorative che nelle società arcaiche vengono svolte in gran parte dalle donne, e dai bambini, e priva di senso lo status inferiore assegnato a chi lavora. Si pensi che invece, tuttora, lo status superiore di “anziano”, in Africa, per tradizione è riservato ai padri di famiglia – in pratica, a tutti gli uomini o quasi – non appena i figli adolescenti sono in grado di lavorare in vece loro e l’ozio ne è una prerogativa.
D’altra parte la concezione della donna nel cristianesimo, in tutta la sua rivoluzionaria valenza innovativa, si manifesta pienamente nell’Annunciazione a Maria, una ragazzina che viveva in una società patriarcale in cui il destino di una donna era nelle mani dei famigliari dalla nascita alla morte. Eppure l’Angelo, fatto ininmmaginabile in quel contesto, si rivolge a lei, personalmente, non ai suoi genitori e lei, atto di inaudita trasgressione, risponde, senza consultarli, disponendo di se stessa e decidendo da sé, ben consapevole oltre tutto di rischiare il disonore permanente del legittimo rifiuto di Giuseppe di concludere il contratto matrimoniale già sottoscritto con i suoi genitori, la condanna alla lapidazione o la morte, insieme al suo bambino, per mano dei parenti, come succede ancora oggi a tante donne.