Obama, i generali e quel pasticcio sull’Isis
Il Congresso di Washington punta il dito contro il Central Command, il più importante dei sei comandi interforze delle forze armate Usa, responsabile del Medio Oriente e dell’area Afghanistan/Pakistan: in pratica di tutte le guerre in cui sono coinvolti direttamente gli Usa.
Il Congresso di Washington punta il dito contro il Central Command, il più importante dei sei comandi interforze delle forze armate Usa, responsabile del Medio Oriente e dell’area Afghanistan/Pakistan: in pratica di tutte le guerre in cui sono coinvolti direttamente gli Usa. Secondo la commissione di inchiesta del Congresso i vertici del Centcom hanno manipolato nel 2014 e 2015 i rapporti dell’intelligence per fornire al presidente Barack Obama un quadro ottimistico dei risultati ottenuti nella campagna contro lo Stato Islamico in Iraq e Siria.
La Commissione parlamentare era stata istituita l’anno scorso dopo le rivelazioni del New York Times, che a fine agosto riferì di un’inchiesta da parte del Pentagono che aveva stabilito come Casa Bianca e Congresso fossero stati raggirati da generali con rapporti falsi che illustravano vittorie inesistenti e raid aerei fulminanti contro lo Stato Islamico oltre a celebrare l’efficienza degli scalcinati reparti iracheni addestrati dai consiglieri militari statunitensi.
Secondo il Pentagono un pugno di alti ufficiali del Central Command da quasi un anno modificava i rapporti di analisti e servizi d’intelligence per far credere al “commander in Chief” che gli Usa stavano vincendo la guerra contro l’Isis. Un inganno portato avanti con tenacia, esercitando anche pressioni sugli analisti, da alcuni ufficiali di punta dal Centcom, il comando regionale che gestisce le operazioni in Medio Oriente e Asia Centrale come confermarono le fonti citate dal giornale newyorchese che ha ottime fonti nell’amministrazione Obama.
Anche il rapporto preliminare dell’inchiesta avviata dal Congresso è giunto alle stesse conclusioni del Pentagono prendendo di mira i vertici dell’intelligence del Centcom (Comando guidato dal 2013 al marzo del 2016 da generale Lloyd Austin oggi in congedo) accusati di aver «manipolato i rapporti dei comandanti sul terreno per minimizzare la minaccia rappresentata da Isis in Iraq». Austin sarebbe colpevole quanto meno di non aver controllato l’operato dei suoi subalterni, in particolare l’Intelligence Unit del Centcom guidata dal maggior generale Steven Grove che “ritoccava” i rapporti per fornire un quadro positivo delle operazioni. Grove e il suo vice, il civile Gregory Ryckman, sono inoltre accusati di aver distrutto migliaia di e-mail prima dell’ispezione del Pentagono sul loro operato.
Il deputato repubblicano Mike Pompeo, membro della commissione d’inchiesta, ha riferito che il risultato di questa alterazione delle informazioni provenienti dagli agenti in loco è che ai «destinatari di questi prodotti di intelligence veniva fornito un quadro molto più roseo dei successi delle operazioni statunitensi contro Isis». Barack Obama, il “commander in chief”, era del resto già propenso a sottovalutare la minaccia dell’Isis al punto che all’inizio dell’offensiva dello Stato Islamico in Iraq, nel gennaio del 2014, in un’intervista al New Yorker definì il movimento jihadista (che aveva appena conquistato Fallujah) «la riserva di una squadra giovanile di basket» rispetto ad al-Qaeda.
Non è però chiaro quale fosse l’obiettivo del raggiro. Forse evitare che Obama decidesse di inviare truppe a combattere l’Isis sul terreno come hanno chiesto più volte i vertici della Difesa? Ipotesi improbabile considerando che il presidente ha caratterizzato i suoi due mandati con ampi ritiri di truppe da Iraq e Afghanistan e blandi interventi militari in Libia e contro lo Stato Islamico. Difficile inoltre credere che l’uomo più potente della Terra e il Parlamento della più grande superpotenza globale si bevano fandonie redatte da quattro generali e un pugno di analisti. Anche perché le vittorie dell’Isis sul campo di battaglia erano evidenti e ampiamente pubblicizzate in tutti i dettagli dai media internazionali.
Per questo le inchieste del Pentagono e poi del Congresso sembrano avere l’obiettivo di proteggere Casa Bianca, Camera e Senato dalla brutta figura rimediata nella guerra contro lo Stato Islamico fingendo di silurare qualche ufficiale e accusando i militari per gli errori di valutazione grossolani commessi dall’Amministrazione Obama. Come il fallito piano da mezzo miliardo di dollari all’anno (per tre anni) teso d addestrare in Turchia miliziani “moderati” anti-Isis che appena entrati in azione passarono dalla parte dei jihadisti con le armi e gli equipaggiamenti forniti loro da Washington.
Lloyd Austin è ormai in congedo, ma neppure il generale Grove ha subito per ora punizioni: nello scorso maggio il comando dell’Us Army lo ha semplicemente trasferito a Washington, presso l’ufficio del vice capo di stato maggiore, dove si occuperà di redigere i testi per la Quadrennial Defense Review, i programmi di aggiornamento della forza armata. Niente male per un ufficiale che dovrebbe essere responsabile di aver mentito alla Casa Bianca e al Congresso mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. A rendere ancor più ridicoli contenuti dell’inchiesta contribuiscono anche altre banali considerazioni.
L’intelligence community statunitense è composta da 17 agenzie federali, molte delle quali coinvolte nel contrasto all’Isis: possibile che nessuna di queste abbia fornito notizie più realistiche e credibili ai decisori di Washington o abbia colto l’infondatezza delle informazioni fornite dai militari? A Obama e al Congresso sarebbe del resto stato sufficiente leggere i giornali, accendere la radio o la televisione per capire che la guerra andava male, o che Ramadi e Palmira erano cadute in mano all’Isis. Le inchieste, l’anno scorso quella del Pentagono e ora quella del Congresso, puzzano quindi di scaricabarile. La prima per salvare la faccia a un presidente che ha costellato i suoi due mandati di errori militari troppo madornali per non apparire come frutto di una precisa strategia di disimpegno statunitense teso a seminare il caos e la destabilizzazione.
La seconda ha forse l’obiettivo di dare una mano alla campagna elettorale di Hillary Clinton, accusata da Donald Trump di “complicità” per gli insuccessi dell’Amministrazione Obama in politica estera e di sicurezza nazionale. Accusa non ingiustificata se si ricorda l’intervista rilasciata l’anno scorso al Guardian dell’ex presidente finlandese e Premio Nobel per la pace, Marti Athisaari, che ha rivelato come nel 2012 la Russia propose un piano per la Siria che offriva la graduale uscita di scena di Assad in cambio dello stop alle forniture di armi arabe e occidentali ai ribelli.
Athisaari, che all’epoca seguiva come osservatore la crisi siriana, ha affermato (senza essere smentito) che Usa ed europei ignorarono la proposta. Del resto l’allora segretario di Stato, Hillary Clinton, considerava (seguita da molti leader europei) Assad un criminale con cui rifiutare ogni negoziato, probabilmente convinta che i jihadisti sostenuti da monarchie del Golfo e Occidente avrebbero rovesciato presto il regime. All’epoca la guerra civile siriana era scoppiata da un anno e aveva provocato 40 mila morti e un milione di profughi: oggi i morti sono 300 mila e i profughi 12 milioni tra quelli fuggiti all’estero e gli sfollati interni. Il soccorso alla Clinton da parte del Congresso sembra inoltre essere un obiettivo bipartisan, considerato che Trump è inviso anche alla gran parte dei congressisti repubblicani.