O partigiano, vattene via
Una lapide per una 13enne stuprata dai partigiani? L'Anpi dice no perché era fascista. E nessuno si indigna, nemmeno le femministe in servizio permanente. E' la logica dei vincitori: vendetta e non giustizia, per imporre un mito e difenderlo costi quel che costi.
Nel Comune di Noli in provincia di Savona un consigliere comunale ha proposto l'intitolazione di una targa a Giuseppina Ghersi. Chi è? Era una 13enne che venne stuprata e uccisa dai partigiani. Perché? Le motivazioni erano sempre le solite: parentele fasciste, encomi pubblici del Duce per i temi o anche solo il sospetto, e ribadisco sospetto, che fosse una collaborazionista. Come ad esempio accadde per il coetaneo di Giuseppina, il seminarista Rolando Rivi, che oggi è il primo beato martire dell'odio partigiano.
Ebbene. Ovviamente ad opporsi all'idea commemorativa sono stati i partigiani, i quali sono insorti: «Era una fascista. Eravamo alla fine della guerra, è ovvio che ci fossero condizioni che oggi possono sembrare incomprensibili». Fine della discussione, ha sentenziato il presidente dell'Anpi provinciale Samuele Rago, che di anni ne ha appena settanta e sicuramente non ha mai imbracciato il fucile in quei giorni.
La notizia non stupisce chi si occupa di crimini della Resistenza da tempo. Giorgio Pisanò, nella sua monumentale storia della Guerra Civile aveva pubblicato proprio la foto della piccola Giuseppina mentre veniva condotta al macello e quella foto era diventata il simbolo della violenza rossa. Violenza che, come dimostra il caso di Giuseppina, continuò ben dopo la guerra ammesso e non concesso che in guerra sia lecito stuprare una sospettata e passarla in cavalleria.
Sia come sia, il commento dei partigiani si commenta da solo, appunto. Hanno vinto e hanno imposto con logica da vincitore l'odio sistematico per il nemico. Un odio che viene tramandato oggi di padre in figlio nel ricordo sbiadito, ma ancora polticamente influente, di questi eroi senza macchia e senza paura che però, in realtà, nella loro parte gappista, quindi rossa, erano dei farabutti, avendo ucciso senza pietà semplici oppositori politici, non nemici in alta uniforme con fucile spianato.
Ci sono donne ad esempio nell'Appennino che al solo sentire parlare di partigiani tremano ancora perché con le loro scorribande e razzie «infangavano il nome dei partigiani», come ebbe a dire il comandante Marconi a proposito della Repubblica di Montefiorino.
Per molte mogli e molte madri, i partigiani hanno rappresentato per anni un ricordo fatto di angoscia e terrore. La stessa maestra di Rolando Rivi venne violentata soltanto perché premiata dal Regime con una promozione scolastica. Passò il resto della sua vita tra atroci tormenti. Ecco perchè una lapide a memoria di Giuseppia Ghersi non solo è sacrosanta ma contribuirebbe a creare quel clima di memoria almeno accettata che da tanti anni cerchiamo e forse smuoverebbe un po' le femministe in servizio permanente che votano lo stesso partito dei partigiani, il Pd, a fare i conti con altre realtà e altre vittime.
Però i vincitori fanno ancora la voce grossa e il mito del partigiano buono e senza paura non se ne vuole andare. Perchè costruito sulla menzogna e sull'odio, ritratto di una stagione che ha visto la vendetta prevalere sulla giustizia e che non ha fatto altro che replicare i suoi frutti. Gli stessi che hanno fatto sì che si umiliasse ancora una volta la memoria di una vittima innocente di una guerra che i gappisti rossi avevano deciso di combattere da soli per il Sol dell'avvenir.