Nuovo anti-colonialismo, altra forma dell'odio di sé
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La protesta per la guerra a Gaza si alimenta con l'ideologia dominante nella sinistra: l'anti-colonialismo. Che non è lotta contro gli imperi (che non ci sono più) ma contro i discendenti dei coloni.
Con la riapertura delle università e dei campus negli Usa è probabile che ricomincino anche le occupazioni e gli accampamenti, contro la guerra a Gaza.
La guerra a Gaza ha già provocato le dimissioni di ben tre presidi delle grandi università: Elizabeth Magill della Pennsylvania University, Claudine Gay di Harvard e infine, il 16 agosto, anche Minouche Shafik, della Columbia University, epicentro della protesta pro-Palestina. La Shafik, in particolare, si è trovata fra due fuochi, con la destra che l’ha accusata di non aver protetto abbastanza gli studenti ebrei e la sinistra che non le perdona la richiesta di intervento delle forze dell’ordine per sgomberare l’occupazione.
Come si spiega tanta passione per una guerra così lontana? Non c’è neppure una frazione di questa mobilitazione per altri conflitti, come quello in Ucraina, dove pure gli Usa sono molto coinvolti. Nessuno ha mai fatto un’occupazione universitaria per Kiev. Ma nemmeno per proteste sulla guerra nel Sudan (attualmente la peggior crisi umanitaria nel mondo) o nel Myanmar (morti nell’ordine delle decine di migliaia), solo per citare due conflitti contemporanei. La guerra in Israele interessa più delle altre il movimento studentesco di sinistra, perché riguarda direttamente la loro ideologia dominante: l’anti-colonialismo. Ma gli imperi coloniali non erano finiti negli anni Sessanta del secolo scorso? Sì, ma questo è un anti-colonialismo che demonizza i discendenti dei coloni.
A seguito delle dimissioni di Minouche Shafik, questa ideologia è stata descritta in modo esauriente dallo scrittore Adam Kirsch in un editoriale del Wall Street Journal. «La base ideologica delle proteste anti-israeliane è un insieme più ampio di idee sui ‘coloni’ e il ‘colonialismo’, un concetto accademico influente che considera alcuni paesi come intrinsecamente e permanentemente illegittimi a causa del modo in cui sono stati fondati». Israele è nato dall’acquisto/colonizzazione dei territori mediorientali da parte del movimento sionista, nel corso di tutta la prima metà del Novecento. Quindi i manifestanti pro-Palestina lo ritengono illegittimo in quanto “corpo estraneo” nel Medio Oriente, frutto di una dominazione straniera. Non si accontenterebbero di un piano di pace ben riuscito. Vorrebbero proprio che gli ebrei sloggiassero e tornassero in Europa, da dove sono arrivate le prime tre generazioni di ebrei sionisti. “Tornate in Polonia”, è uno degli insulti più ricorrenti nelle occupazioni universitarie, rivolto ai contro-manifestanti ebrei e isreaeliani.
Ma questa ideologia non si ferma a Israele, riguarda anche gli stessi Usa: «In effetti, negli ultimi anni, teorici e scrittori ispirati dall’idea del colonialismo hanno creato quello che equivale a un nuovo contro-mito della storia americana», scrive Kirsch. «Ora per l’ideologia del colonialismo, gli Stati Uniti sono il cardine su cui ruota la storia mondiale. La differenza è che, per questa nuova scuola, si è trattato di una svolta verso la dannazione, non verso la redenzione. Nelle parole di Roxanne Dunbar-Ortiz, una delle principali storiche del colonialismo, "non sarebbe dovuto accadere che le grandi civiltà dell’emisfero occidentale venissero arbitrariamente distrutte, il graduale progresso dell’umanità è stato interrotto e avviato su un percorso di avidità e distruzione". La frase più frequentemente citata nella letteratura sul colonialismo è quella dello studioso australiano Patrick Wolfe: "L’invasione è una struttura, non un evento". Wolfe si riferiva specificamente all’insediamento britannico in Australia, ma il principio si applica anche agli Stati Uniti e al Canada, anch’essi creati espropriando le popolazioni che vivevano lì quando arrivarono gli europei».
Nel caso americano, gli strumenti per esercitare l’ideologia anti-colonialista sono: dichiararsi “colonizzatori” pubblicamente, seguire fior di manuali per “decolonizzare” « la tua dieta, la tua libreria, il tuo giardino, il tuo consiglio di amministrazione e molto altro ancora», ma soprattutto il riconoscimento che stai occupando una terra non tua, anche ripristinando la toponomastica dei nativi. «Questa convinzione nell’illegittimità americana viene spesso invocata oggi riferendosi al Nord America come Turtle Island, apparentemente per rivendicare un’identità che esisteva prima di Cristoforo Colombo. Il nome trae ispirazione da un mito della creazione irochese, secondo il quale la Terra sarebbe cresciuta dal fango posto sul guscio di una tartaruga».
Adam Kirsch si sofferma, chiaramente, sul caso americano, ma non spiega come mai l’ideologia della decolonizzazioni sia nata nel mondo anglosassone e riguardi solamente i popoli ebrei e cristiani. Non c’è nulla di equivalente, ad esempio, fra gli indio dell’America centrale. Eppure Inca e Aztechi avevano costituito degli imperi, dominando altre popolazioni vicine. Non c’è nulla di simile nel mondo arabo: gli arabi, fino al VI Secolo, vivevano solo nella penisola arabica. Dopo l’VIII Secolo erano in tutto il Medio Oriente e Nord Africa, un territorio immenso in cui l'arabo è tuttora la lingua dominante. Ma in Marocco, così come in Iraq o nella stessa Palestina (conquistata dagli arabi nel VII Secolo) non si assiste a nessuna protesta anti-colonialista araba. E lo stesso si può dire per quasi tutti i popoli asiatici, a partire dalla Cina che tuttora sta colonizzando Tibet e Xinjiang. Per non parlare dei russi che erano limitati alla sola regione della Moscovia fino al XV Secolo ed oggi occupano i due terzi dell’Eurasia. Ma non c’è alcun movimento anti-colonialista russo, specialmente in questi anni di guerra.
L’anti-colonialismo anglo-sassone è dunque un caso unico. Ed è un prodotto esclusivo della cultura di sinistra contemporanea. E nasce, evidentemente dal suo odio anti-cristiano, che di conseguenza si estende anche a un odio anti-ebraico. Solo i colonizzatori cristiani europei, o quelli ebrei del Novecento, sono considerati colpevoli. Nessun altro. Si va oltre la sana autocritica: qui si arriva all'odio di sé.