Nuove tasse e tagli. La Grecia ci prova ancora
Nuove imposte sul reddito e tagli alle pensioni. È questa l'ultima misura di “austerità” che il premier greco Alexis Tsipras ha approvato per salvare, o almeno tenere in piedi per qualche altro mese, il proprio Paese. Insomma, la Grecia torna ancora una volta dove l'avevamo lasciata: al punto di partenza.
Nuove imposte sul reddito e tagli alle pensioni. È questa l'ultima misura di “austerità” (termine un po' vago, che va però di gran moda) che il premier greco Alexis Tsipras ha approvato la notte fra domenica e lunedì per salvare, o almeno tenere in piedi per qualche altro mese, il proprio Paese. Le norme approvate da tutti i 153 membri (su 300) della maggioranza formata da Syriza e Greci Indipendenti valgono – nel complesso - 3,6 miliardi di euro e, come sempre, sono la condizione indispensabile chiesta dai creditori internazionali per varare la prossima tranche di aiuti da 5 miliardi di euro. Cifra cui si aggiungeranno a breve altri 1,8 miliardi per un aggiustamento totale di 5,4.
Nello specifico la manovra di Tsipras dà il via a una pensione minima di 384 euro al mese per 20 anni di contribuzione, riducendo al contempo gli enti previdenziali, ma aumentando i contributi previdenziali al 20%: 13,6% a carico del datore di lavoro e 6,7% del dipendente (in precedenza era il 4%). Nuova stangata per autonomi e agricoltori che vedono ridursi la soglia di esenzione Irpef da 9.500 a 8.800 euro. Settecento euro che, calcolando che la prima aliquota in Grecia corrisponde al 22%, vogliono dire 150 euro in più di tasse l'anno. Come non bastasse viene creata una nuova tassa di solidarietà supplementare sull'Irpef. L'ennesima bomba per un Paese i cui i cittadini sono già fiaccati da una crisi economica senza via d'uscita. Basti pensare che, su una popolazione di circa 11 milioni di persone, 5,4 miliardi di euro vogliono dire circa 490 euro a testa, anziani e neonati inclusi.
Non a caso il voto del Parlamento ha suscitato, come ogni volta, vibranti proteste da parte di 10mila cittadini greci che hanno manifestato di fronte al parlamento in piazza Syntagma. Di fatto ogni volta che si parla di Grecia tocca riscrivere più o meno lo stesso articolo: nuove tasse, nuovi tagli (purtroppo, come in Italia, non sempre sugli sprechi e sui privilegi), nuove proteste e soprattutto una spirale da cui sembra impossibile uscire. Se ciò accade è perché nessuno, in Grecia e in Europa, vuole fare i conti con la realtà: la Grecia, nell'euro, non riesce più a starci. Il debito è troppo alto, l'economia troppo debole e arretrata e la struttura sociale troppo statica per adattarsi alle sfide che il mercato globale del terzo millennio pone di fronte.
Per di più, è un Paese fiaccato dalla burocrazia e dalle corporazioni. Basti pensare che, dopo l'approvazione delle ultime misure d'austerity, il presidente dell'Ordine degli ingegneri greco Giorgios Stasinos ha minacciato di cancellare dall'albo gli ingegneri del governo: dallo stesso Tsipras al segretario di Stato Alekos Flambouraris fino al ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Christos Spirtzis. «Prenderemo tutte le azioni necessarie», ha detto con una frase dall'eco vagamente mafiosa che, in Italia, avrebbe probabilmente fatto impallidire tutti i burosauri a capo delle caste, dai notai ai farmacisti (passando per i giornalisti).
Per un Paese in simili condizioni l'unica alternativa possibile è, di fatto, l'uscita dall'euro: un'opzione che ha però incognite talmente grandi da essere difficilmente prevedibili. Basti pensare ai rischi (che sono quasi certezza) inflazione e svalutazione, che danneggerebbero ancor di più il tenore di vita delle famiglie. Non solo: anche “stampando moneta” uno Stato ha comunque bisogno di finanziarsi sul mercato del credito, a interessi calcolati sulla base dell'affidabilità dei propri conti. Quale sarebbe il rating di uno Stato come la Grecia dopo aver perso l'appoggio dell'Unione europea? Facile pensare che sarebbe tanto basso da costringere il governo a fornire interessi astronomici in cambio di ogni dracma di prestito.
L'altra via, anch'essa impercorribile, con cui la Grecia potrebbe mettersi in sesto sarebbe una cancellazione di una parte consistente del debito sovrano. I creditori istituzionali che hanno in mano l'80% del debito greco – 60% l'Unione europea tramite i fondi di stabilità, 12% il Fmi e 8% la Bce – dovrebbero rinunciare in tutto o in parte ai propri crediti. Con che conseguenze? Anzitutto i creditori dovrebbero rinunciare per sempre a miliardi di euro che ricadrebbero così, indirettamente, sulle spalle dei contribuenti. In secondo luogo, non è affatto detto che la cancellazione del debito impedisca al governo greco di continuare a spendere più di quanto incassa, tornando in qualche anno nella situazione di oggi.
In terzo luogo la cancellazione del debito potrebbe avere pesanti conseguenze sulla stessa area euro. Finora la moneta unica è stata una valuta relativamente stabile grazie a un sistema di emissione abbastanza rigoroso e di precise garanzie sul debito. Cosa succederebbe se, a partire dalla Grecia, saltasse il principio di responsabilità fiscale? Anche altri Paesi in difficoltà, come Italia, Spagna, Francia, Portogallo e Irlanda potrebbero chiedere una revisione del loro debito facendo sì che la credibilità della valuta sul mercato risulti compromessa. Ecco perché la Grecia è condannata a restare, sempre, al punto in cui l'abbiamo lasciata qualche mese prima: quello di partenza.