Nulle le "nozze" del sindaco Marino Parola di giudice non sospetto
Nella vulgata mediatica il sindaco Ignazio Marino è il paladino dei diritti, il ministro Alfano invece la burocrazia più ottusa. Ma le sue nozze gay celebrate in Campidoglio semplicemte non esistono. A dirlo dalla Prima sezione civile della Cassazione, che si occupa di famiglia. Presieduta da un giudice davvero insospettabile...
Nella vulgata mediatica Ignazio Marino è il paladino dei diritti, il ministro Alfano e il prefetto di Roma incarnano invece la burocrazia più ottusa, cieca di fronte alle forme contemporanee di manifestazione dell’amore, così ripiegata su sé stessa da compiere l’atto di prevaricazione di cancellare le trascrizioni nei registri dello stato civile della Capitale. Esponenti di associazioni Lgbt impartiscono in queste ore sofisticate lezioni di diritto civile e di diritto amministrativo, e spiegano che solo il giudice potrebbe – se ne ravvisasse le condizione – disporre la cancellazione, non certo una autorità amministrativa, sì che il combinato della circolare del ministro e della iniziativa del prefetto non avrebbero altro significato che quello di un “marketing politico”. A differenza del suo collega di Bologna, Marino non attribuisce all’iniziativa un valore meramente simbolico, ma annuncia di andare oltre; per esempio, vuol riconoscere i congedi parentali ai componenti di una coppia da considerare “sposata” a seguito della trascrizione (immagino solo per i dipendenti del Comune di Roma che fruiscano del nuovo servizio: per gli altri, in virtù di quale competenza?).
Peccato che, a legislazione italiana invariata, e perfino nel quadro dei principi di diritto in vigore nell’Unione europea, il peso giuridico degli atti che si sono svolti sabato scorso al Campidoglio, protagonisti il sindaco e una quindicina di coppie di persone dello stesso sesso, semplicemente non esistono. Questa valutazione, prima che dal ministro dell’Interno e dal prefetto Pecoraro, proviene dalla Corte di Cassazione, cioè dal giudice che, in base al nostro ordinamento, è chiamato a stabilire la corretta applicazione del diritto. E non da una sezione qualsiasi della Corte, ma dalla 1^ sezione civile, quella che si occupa specificamente di diritto di famiglia. Si può anche ignorare la puntuale ricostruzione del quadro giuridico di riferimento operata nelle ultime settimane prima dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Firenze (quest’ultima ha annullato la famosa pronuncia del Tribunale di Grosseto), ma la Cassazione no: soprattutto quando il presidente del collegio giudicante è la dottoressa Gabriella Luccioli, un magistrato che non ha mai nascosto la sua appartenenza ideale, autrice di sentenze “evolutive” sulle convivenze, e della decisione-chiave riguardante il caso di Eluana Englaro, impegnata in seminari e convegni orientati a introdurre nel nostro ordinamento il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
La 1^ sezione civile della Cassazione, presieduta dalla Luccioli, con la sentenza n. 4184 del 4 novembre 2011/15 marzo 2012 (clicca qui), affronta il caso di due cittadini italiani che nel 2002 contraggono matrimonio a L’Aja, in Olanda, e nel 2004 rivolgono istanza al sindaco di Latina, luogo di loro residenza, perché trascriva il relativo atto. Il sindaco rifiuta, i due ricorrono in Tribunale, poi anche della Corte di appello di Roma, e la causa finisce in Cassazione. Quest’ultima conferma tutte le precedenti decisioni – sia quella del sindaco sia le sentenze di merito che danno torto ai due – con una lunga sentenza, che ricorda come «la diversità di sesso dei nubendi è (…) requisito minimo indispensabile per la stessa “esistenza” del matrimonio civile come atto giuridicamente rilevante (…). Questo requisito - pur non previsto in modo espresso né dalla Costituzione, né dal codice civile vigente (…), né dalle numerose leggi che, direttamente o indirettamente, si riferiscono all’istituto matrimoniale - sta tuttavia, quale “postulato” implicito, a fondamento di tale istituto, come emerge inequivocabilmente da molteplici disposizioni di tali fonti e, in primo luogo, dall’art. 107, primo comma, cod. civ. che, nel disciplinare la forma della celebrazione del matrimonio, prevede tra l’altro che l’ufficiale dello stato civile celebrante “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie” (…). L’inequivocabile corrispondenza di tali parole “marito” e “moglie” - utilizzate dal legislatore in modo assolutamente prevalente rispetto ad altre espressioni di analogo significato -, rispettivamente, con la parte maschile e con la parte femminile dell’atto (e del rapporto) matrimoniale è attestato anche da numerose disposizioni del diritto vigente».
La Corte fa qualche esempio, che non riporto per brevità, ma poi risale alla ininterrotta tradizione giuridica italiana. Prende le mosse dalla «definizione del matrimonio data dai giuristi romani classic»e la arricchisce con la «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948» per la quale «Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione» (art. 16, paragrafo 1); analoga previsione è contenuta nell’art. 23, paragrafo 2, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato e aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, secondo cui «Il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è riconosciuto agli uomini e alle donne che abbiano l’età per contrarre matrimonio». Tutto ciò, «benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta», come nota la Corte costituzionale nella (…) sentenza n. 138 del 2010, a proposito del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente sul futuro art. 29 della Costituzione, concludendo sul punto che tale norma costituzionale «non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto» (…). E il richiamo a tale “tradizione” è significativamente contenuto più volte anche nella sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo, di poco successiva a quella della Corte costituzionale (…). La diversità di sesso dei nubendi è, dunque, richiesta dalla legge per la stessa identificabilità giuridica dell’atto di matrimonio. Proprio di qui la conseguenza, condivisa dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla prevalente dottrina, che l’atto mancante di questo requisito comporta la qualificazione di tale atto secondo la categoria non della sua validità, ma della sua stessa esistenza. Categoria, questa dell’inesistenza (…), che consente, sul piano pratico, di impedire il dispiegamento di qualsiasi effetto giuridico dell’atto di matrimonio, sia pure meramente interinale, a differenza dell’atto di matrimonio nullo che, invece, tali effetti può, quantomeno interinalmente, produrre (…). Categorizzazione, inoltre, del tutto coerente con la premessa che l’atto di matrimonio tra persone dello stesso sesso, mancando di un requisito indispensabile per la sua stessa identificabilità come tale secondo la fattispecie astratta normativamente prefigurata, non è previsto dall’ordinamento e quindi, in questo senso, “non esiste”. Pertanto - sul piano delle norme, di rango primario o sub-primario, applicabili alla fattispecie in prima approssimazione -, alla specifica questione, consistente nello stabilire se due cittadini italiani dello stesso sesso, i quali abbiano contratto matrimonio all’estero, siano, o no, titolari del diritto alla trascrizione del relativo atto nel corrispondente registro dello stato civile italiano, deve darsi, in conformità con i su menzionati precedenti di questa Corte, risposta negativa».
La Cassazione ha cura di sottolineare «che, nella specie, l’intrascrivibilità di tale atto dipende non già dalla sua contrarietà all’ordine pubblico, (…), ma dalla previa e più radicale ragione, riscontrabile anche dall’ufficiale dello stato civile in forza delle attribuzioni conferitegli (…), della sua non riconoscibilità come atto di matrimonio nell’ordinamento giuridico italiano». Nella sentenza non ci si limita a questo: si considera la giurisprudenza formatasi in sede europea e si ricordano le pronunce della Corte costituzionale e della stessa Cassazione di riconoscimento di diritti ai componenti di una unione omosessuale; quest’ultima è ricompresa nelle “formazioni sociali” menzionate dall’articolo 2 della Costituzione. La conclusione però non muta: «il diritto fondamentale di contrarre matrimonio non è riconosciuto dalla nostra Costituzione a due persone dello stesso sesso». Né valgono i richiami alla Carta europea dei diritti dell’uomo, poiché la materia della «trascrivibilità, o no, nei registri dello stato civile italiano di un atto di matrimonio di cittadini italiani dello stesso sesso celebrato all’estero è del tutto estranea alle materie attribuite alla competenza dell’Unione Europea ed inoltre è priva di qualsiasi legame, anche indiretto, con il diritto dell’Unione».
Quand’anche si ritenga che l’interpretazione data di recente dalla Cedu del “diritto” al matrimonio fra persone dello stesso sesso abbia fatto cadere il presupposto della diversità di sesso quale condizione per l’esistenza del matrimonio medesimo, secondo la Cassazione che l’effetto sarebbe far dipendere «l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali (…) non più dalla loro “inesistenza” (…), e neppure dalla loro “invalidità”, ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio appunto, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano». Ma l’intrascrivibilità resta.
Se l’atto di matrimonio, come conclude la Cassazione, non è trascrivibile quando riguarda persone dello stesso sesso, tutti gli atti amministrativi conseguenti, in primis il riconoscimento del congedo parentale fondato su tale atto, saranno inesistenti, o nella migliore delle ipotesi inidonei a produrre effetti, comunque arbitrari. Per questo l’intervento del prefetto, sollecitato dal ministro dell’Interno, è tutt’altro che formalistico e privo di competenza: nel rispetto dell’autonomia degli enti territoriali, il Viminale ha un proprio dipartimento – quello degli enti locali – che svolge le funzioni di garante della legalità degli stessi; quando emerge una palese violazione di legge, essi hanno il dovere di rimuoverla e di impedirne conseguenze ulteriori.
Ignazio Marino ricorda spesso, fra le perle del suo curriculum, una pubblicazione scritta insieme col cardinale Carlo Maria Martini. Altri ne apprezzeranno il valore religioso; è certo che, come lo stesso Marino ha provato a fare durante la cerimonia di trascrizione di sabato 18, evocare la memoria del co-autore che non c’è più a sugello della sua iniziativa non può trasformarsi in una patente per calpestare le leggi dello Stato. Parola dei giudici della Cassazione: anche quelli con cui il sindaco scriverebbe volentieri un nuovo libro insieme.
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