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LIVORNO

Nozze in casa, questione di soldi? C'è dell'altro

Un documento del vescovo di Livorno dà il via libera ai matrimoni in casa per rimuovere non meglio precisati «impedimenti di tipo culturale e morale» o «di natura morale e sociale». Poi adduce improbabili costi per la chiesa. Una vaghezza che darà il via alla nuova moda del “marriage at home”. Con il rischio di svilire sempre più il Sacramento.

Ecclesia 25_06_2021

C’era una volta una barzelletta – a dire il vero una barzelletta in più versioni - che illustrava le tre cose che non sa nemmeno lo Spirito Santo. Ossia quanti soldi abbiano i Salesiani, quante congregazioni femminili esistano e cosa ci sia nella testa dei Gesuiti. Dopo la lettura della recente decisione del vescovo di Livorno, l’ultima “categoria” della barzelletta necessita di espansione.

Mons. Simone Giusti, per «dare dei segnali di accoglienza ai tanti che sono cristiani, ma hanno difficoltà oggi a sposarsi in chiesa» (vedi qui), in data 18 giugno 2021 ha concesso a tutti i Parroci della sua diocesi l’autorizzazione di assistere i matrimoni anche nelle abitazioni, avvalendosi del can. 1118 § 2: «L'Ordinario del luogo può permettere che il matrimonio sia celebrato in altro luogo conveniente», diverso dalla chiesa o oratorio.

Già, ma per quale ragione? Dalla nota giuridico pastorale non si capisce granché: si percepisce invece una certa confusione tra la vicinanza a cui esorterebbe Amoris Laetitia, le coppie conviventi, ed impedimenti vari per sposarsi in chiesa. Il riferimento pastorale di questa stravagante decisione è l’episodio in cui papa Francesco, durante il volo da Santiago del Cile a Iquique, nel gennaio 2018, unì in matrimonio Paula Podest e Carlos Ciuffati, «uno steward e una hostess cileni, i quali convivevano già da tempo con due figli ed erano già sposati civilmente. Quando il Pontefice chiese loro perché non si fossero sposati con matrimonio religioso, i due spiegarono che è stato per via del crollo della chiesa a causa del terremoto del 2010», spiega il vescovo nella nota. Un episodio che è da subito apparso come tutt’altro che improvvisato e che lascia quantomeno dubbiosi sulla motivazione addotta dalla coppia convivente circa l’impossibilità di essersi sposati prima. Che dal 2010, anno in cui è crollata la chiesa, al 2018 non siano riusciti a trovare un altro edificio sacro in tutto il Cile fa pensare. Difficile poi che in una circostanza d’emergenza, come quella che segue un forte sisma, i vescovi cileni non si siano avvalsi dello stesso canone cui ricorre ora Mons. Giusti. Dal 2010, in Cile, non si è sposato più nessuno causa terremoto?

Eppure questo episodio, secondo il vescovo di Livorno, avrebbe testimoniato quella «carità pastorale del Pontefice» che potrebbe aiutare «a promuovere un’autentica conversione pastorale, [...] capace di affrontare, con uno sguardo diverso e fiducioso, il complesso fenomeno delle convivenze o dei matrimoni solo civili, offrendo nuove e particolari possibilità pastorali, anche “azzardate”, come quella del Pontefice».

Secondo Giusti «nel cuore di tanti conviventi e di color che hanno celebrato un matrimonio solo civile, spesso vi è il desiderio di celebrare un matrimonio religioso, ma vi sono alcuni impedimenti di natura morale e sociale che creano ostacoli». Pertanto, «ogni azione pastorale consiste nella rimozione di tutti quegli “impedimenti” di natura sociale e morale che inducono molti a scegliere la convivenza more uxorio, come “tappa irrinunciabile” prima di accedere al matrimonio cristiano». Ma perché mai celebrare un matrimonio in aereo o in casa sarebbe un modo per affrontare il problema delle convivenze? Davvero si pensa che chi va a convivere lo fa perché ha difficoltà a sposarsi dentro l’edificio sacro e non piuttosto perché ci sia qualche problema con quel “per sempre”?

La giornalista Chiara Domenici solleva su Avvenire la questione dei costi, come se si trattasse del problema principale per cui le persone non si sposano in chiesa. Mons. Giusti sembra ridimensionare un po’ l’entità del problema: «La celebrazione del Sacramento del matrimonio non costa nulla, al massimo se una coppia lo vuole, lascia un’offerta per i poveri e non per il prete». Ma poi aggiunge con una consecutio logica un po’ traballante: «Per questo ho dato facoltà ai sacerdoti di Livorno di sposare anche in casa, per fare in modo che quello della location non sia un motivo per rinunciare alla cerimonia religiosa». Ma non aveva appena detto che la location è praticamente gratuita?

Eppure anche in un’intervista video del 21 giugno (vedi qui, dal minuto 13.42), Mons. Giusti dà ancora per buona la giustificazione che diverse persone non si sposerebbero in chiesa, perché non hanno voglia o possibilità di «spendere delle cifre [...] Tanti vanno a convivere perché dicono: “Non ho i soldi per sposarmi”. Allora noi gli diamo la possibilità di sposarsi senza soldi». Correttamente, Mons. Giusti ricorda che non è possibile costruire una famiglia cristiana, se non si accoglie Cristo in casa propria, mediante il sacramento del matrimonio; persone, come afferma il vescovo, che battezzano i figli, li mandano anche al catechismo, ma non si sposano. Ma siamo così sicuri che questo problema venga risolto dal matrimonio in casa? Se una coppia non ritiene così fondamentale sposarsi in Cristo, non è che forse tutta la questione si gioca su una mancata comprensione di cosa sia il matrimonio?

Si sa molto bene che non sono i soldi il problema di chi sceglie la chiesa come luogo della celebrazione, ma tutto il contesto di pranzo, buffet, bomboniere, abiti, fotografo, album, etc. -; è noto altresì che a Livorno non ci sono stati terremoti che hanno tirato giù tutte le chiese... dunque? Benissimo l’idea di spogliare i sacramenti «di tutti gli orpelli che si sono creati a causa del boom consumistico», ma di nuovo, chiediamo: il problema anche economico è sposarsi in chiesa o tutto il resto?

Nel documento la decisione viene giustificata dall’intento di rimuovere non meglio precisati «impedimenti di tipo culturale e morale», o «di natura morale e sociale». Non è dato sapere. Una vaghezza che darà il via alla nuova moda del “marriage at home”, dal momento che ai parroci viene consentito di assistere questi matrimoni domestici, purché «sussistano motivazioni pastorali come descritte nelle premesse».

O ci manca un allegato, oppure nessuna motivazione pastorale concreta viene riportata, nessuna che non siano gli euro. Insomma basterà essere conviventi che non hanno voglia di sposarsi in chiesa per qualsivoglia ragione di tipo morale, culturale o sociale – praticamente tutto – e il gioco è fatto.

Alla non chiara argomentazione del Vescovo, viene in aiuto il vicario giudiziale della diocesi: «Non si tratta di ritornare a celebrare matrimoni nella clandestinità, sempre stigmatizzati dalla Chiesa, poiché le celebrazioni nei luoghi di culto restano comunque ordinarie e preferibili, ma questa possibilità può aiutare alcune coppie a superare le difficoltà a celebrare il “tipo” di matrimonio imposto da certi modelli culturali e sociali». Scusate, ma non sarebbe sufficiente che i parroci dicano a queste persone che ci si può sposare in chiesa anche solo alla presenza di due testimoni? Che si può celebrare in matrimonio anche di sera o di notte (parroco permettendo), in modo discreto?

Secondo Mons. Giusti sarebbero dunque queste le vie nuove da sperimentare, poiché, in fondo, «l’essenziale del Sacramento del matrimonio è la ferma volontà di volersi unire cristianamente per ricevere la grazia di Dio e poter edificare una bella famiglia cristiana». Secondo questa logica si potrebbe abolire anche la forma canonica. E speriamo di non essere presi sul serio.