Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santa Caterina d’Alessandria a cura di Ermes Dovico
L'EDITORIALE

Nordafrica e Medio Oriente, due criteri per gestire la crisi

Siamo di fronte a una svolta epocale e l'Europa deve fare la massima attenzione a due questioni chiave: le conseguenze sulla stabilità del Medio Oriente e sul fenomeno della migrazione.

Editoriali 17_02_2011
Tunisia
La caduta del Muro di Berlino è stata evocata più volte in questi giorni per descrivere l’importanza di quanto sta avvenendo nei paesi arabi e nordafricani. E’ un’immagine senz’altro suggestiva e indovinata se si vuole dare l’idea della svolta epocale cui stiamo assistendo. Ma è anche un paragone fuorviante se guardiamo alla complessità dei movimenti di protesta che si stanno allargando a macchia d’olio anche oltre la regione nordafricana e mediorientale.

A Berlino un evento fulmineo segnava la fine non solo della Germania Est, ma di un blocco di regimi comunisti europei che, infatti, nel giro di due anni sono crollati uno dietro l’altro. Paesi e popoli ognuno con la sua specificità ma con un unico, chiaro, nemico: quel comunismo sovietico che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale aveva imposto povertà e repressione in una vasta regione.

Qui siamo invece di fronte a un processo in continuo divenire, dove il filo comune è la protesta di piazza, ma in una serie di paesi molto diversi fra loro e con un nemico che non ha il volto unico di un regime. Si tratta di regimi autoritari “secolari”, come in Egitto e in Tunisia, ma anche di regimi fondamentalisti, come in Iran; ci sono monarchie come in Bahrein e istituzioni repubblicane come nello Yemen; ed è coinvolto anche un paese con qualche grado di democrazia, come la Giordania. A essere contestati sono governi e regimi fra loro anche opposti, con rivendicazioni che possono diventare anche contraddittorie. Pensiamo ad esempio al regime iraniano, che sostiene apertamente la rivolta in Egitto, perché vi vede la possibilità di rovesciare la politica filo-israeliana del Cairo, salvo poi trovarsi a sua volta contestato dalla piazza per problemi tutti interni.

Si tratta dunque di un processo in cui convergono molteplici fattori – tra cui non va dimenticata la spinta demografica, essendo molto giovani le popolazioni di questi paesi - e i cui esiti sono tutt’altro che scontati e prevedibili e, forse, saranno diversi da paese a paese. Di fronte a questa situazione sarebbe superficiale cavarsela con un generico “viva la democrazia” o pensare che basti garantire libere elezioni per incanalare il movimento di piazza su un binario tranquillo e stabilizzante. I precedenti dell’Algeria e di Gaza sono lì a ricordarcelo.

Ma intanto dobbiamo prestare attenzione alle conseguenze che questo sommovimento potrà avere su due questioni chiave: la stabilità del Medio Oriente e l’immigrazione.

Quanto alla prima, appare evidente che la partita principale si gioca in Egitto che, con Israele, ha firmato un trattato di pace ed è stato finora garanzia di una convivenza regionale, per quanto difficile. Una posizione meno amichevole dell’Egitto nei confronti di Israele, unita all’ascesa di altri governi nella regione maggiormente ostili allo Stato ebraico, potrebbe avere conseguenze molto gravi. Il presidente iraniano Ahmadinejad ha subito cercato di sfruttare questo periodo di transizione sia per ritirare fuori il “sogno” di un Medio Oriente senza Stato di Israele sia per testare subito il cambiamento con il transito di navi da guerra nel Canale di Suez, che sta alzando la tensione proprio in queste ore.

Quanto alla questione dell’immigrazione, ne stiamo già sperimentando le prime conseguenze con l’arrivo di migliaia di tunisini sulle coste siciliane. Una situazione di instabilità che potrebbe andare avanti per mesi e – forse – anni comporterebbe un incentivo fenomenale ad attraversare il Mediterraneo. Per questo è molto importante – come ricordava il professor Giancarlo Blangiardo a BQ – gestire fin da subito in modo corretto l’emergenza per evitare di trovarsi tra pochi mesi davanti a un fenomeno incontrollabile.

In entrambi i casi è necessario un intervento sia dei paesi del Mediterraneo più vicini alla crisi, Italia in testa, sia dell’Unione Europea che, incredibilmente, appare totalmente distratta da ciò che sta avvenendo alle sue porte. E’ fondamentale che l’Europa agisca, da una parte coinvolgendosi con questi paesi con programmi di aiuto allo sviluppo che favoriscano almeno il superamento delle conseguenze della crisi, ma dall’altra affermando con chiarezza alcuni criteri di fondo: primo, che non è negoziabile il diritto all’esistenza di Israele e non si può collaborare con chi – in un modo o nell’altro – si prefigge l’abolizione dello Stato ebraico; secondo, che pur non venendo meno ai princìpi di solidarietà, non si può derogare alla normativa internazionale sulla migrazione, aprendo le porte indiscriminatamente a chiunque cerchi di arrivare in Europa spacciandosi per rifugiato politico.