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LEGGE NERA

Non solo Pakistan: "blasfemi" condannati in Nigeria

L'Alta corte dello Stato del Kano, Nigeria, ha condannato due giovani per blasfemia. Uno dei due, minorenne, a 10 anni di carcere, l'altro, maggiorenne, alla pena capitale. La loro sorte è segnata, anche se probabilmente saranno assolti dalla giustizia federale

Libertà religiosa 17_08_2020
Nigeria, tribunale islamico di Kano

Il 10 agosto in Nigeria un uomo di 22 anni, Yahaya Aminu Sharif, e un ragazzo di 13 anni, Umar Farouk, sono stati riconosciuti colpevoli del reato di blasfemia dall’Alta corte islamica di Kano, uno dei 12 stati della federazione nigeriana a maggioranza musulmana che 20 anni fa, violando la costituzione, hanno deciso di adottare la shari’a, la legge coranica. Sharif è stato condannato alla pena di morte per impiccagione, Farouk a dieci anni di carcere e lavoro.

La colpa di Farouk è aver usato un linguaggio offensivo nei confronti di Dio durante una discussione con un amico. Parlando alla stampa, Baba-Jibo Ibrahim, portavoce del ministro della giustizia del Kano, ha usato l’espressione “linguaggio osceno” e ha precisato: “la corte ha tenuto conto dell’età del ragazzo e lo ha condannato a dieci anni di carcere per punirlo e offrirgli l’opportunità di ravvedersi”. Più grave e senza attenuanti è stato giudicato il comportamento di Sharif, un musicista. Una sua canzone, circolata a marzo sulle reti social, contiene espressioni sprezzanti sul profeta Maometto, è blasfema perché esalta un imam al punto da considerarlo superiore al Profeta. Ibrahim ha precisato che la sentenza, nel rispetto delle leggi islamiche, si basa su prove incontestabili e sull’ammissione di colpevolezza dell’imputato.

Entrambi i condannati hanno tempo 30 giorni per presentare ricorso e i mass media sottolineano che le corti islamiche dal 2000 a oggi hanno emesso diverse condanne a morte per adulterio, omicidio e omosessualità, oltre che per blasfemia, ma finora nessuna sentenza è stata eseguita. 

Se è vero, ha senza dubbio contato il fatto che la notizia delle condanne a morte è trapelata, a livello internazionale. Safiya Hussaini nel 2001, nello stato di Sokoto, e Amina Lawal l’anno successivo, nel Katsina, sono state entrambe condannate alla lapidazione, la pena inflitta dalla legge islamica alle adultere, per aver avuto un figlio fuori del matrimonio, essendo vedova la prima e nubile la seconda. Contro le sentenze sono state organizzate campagne internazionali e raccolte di firme. I loro casi hanno causato non poco imbarazzo nel governo federale, al punto che l’ambasciata nigeriana in Olanda aveva provato a negare sostenendo che la notizia era “infondata e malevola”, “diffusa per ridicolizzare il sistema giudiziario nigeriano e mettere in cattiva luce l’immagine del paese davanti alla comunità internazionale”.

Ahmad Sani Yarima, all’epoca governatore dello stato di Zamfara, il primo ad adottare la legge coranica, a proposito delle sentenze capitali aveva dichiarato: “le religioni come l’islam e il cristianesimo sono religioni di pace, non culti che predicano morte, amputazioni e violenza. È importante che la comunità internazionale mostri pazienza”. Durante il suo mandato le punizioni previste dal Corano in effetti non erano ammesse, ma in altri stati si, e continuano a esserlo. Nelle carceri dello stato di Bauchi, ad esempio, ci sono cinque persone condannate a morte mediante lapidazione e dieci condannate all’amputazione di mani o piedi. Se anche le loro sentenze non verranno eseguite, vivono da anni, e probabilmente vivranno per sempre, ogni giorno nell’ansia che il loro destino si compia. Non per tutti ci sono avvocati disposti a ricorrere in appello.

Anche chi alla fine viene assolto non è detto che abbia finito di penare, una volta rilasciato. Nella società africana è facile diventare vittime di ostracismo, emarginati e discriminati. 

“Sono un musulmano moderato, contro il fondamentalismo e l' estremismo” dice l’ex governatore del Zamfara oggi senatore. Questo non gli ha impedito nel 2003 di sposare una minorenne e di giustificarsi dicendo di “non aver violato alcuna legge dal momento che Maometto ha sposato una giovane ragazza”. Come Yarima, milioni di musulmani nigeriani si ritengono “moderati”. Lo studioso Ed Husain stima che solo il 3 per cento degli islamici siano fondamentalisti. Ma è sconcertante come questa minoranza riesca in certi contesti e situazioni a influenzare tanti fedeli, istigarli all’odio e alla violenza. La canzone “blasfema” ha provocato gravi disordini. Folle in preda alla collera hanno dato fuoco alla casa di Sharif che è stato costretto a nascondersi, hanno organizzato manifestazioni per le vie di Kano e un presidio davanti alla sede della polizia islamica per chiederne l’incriminazione.

Succede anche di peggio. In Pakistan nel 2018 enormi manifestazioni hanno bloccato per giorni le principali città, organizzate dai radicali islamici contro l’assoluzione di Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010. Nel 2015, dopo che un commando islamico aveva sterminato la redazione di Charlie Hebdo a Parigi, al richiamo di leader religiosi e politici folle islamiche sono scese per strada in molti stati, in alcuni casi infierendo sulla minoranza cristiana: le manifestazioni più imponenti in Niger, Pakistan, Somalia, Yemen, Senegal, Mali, Mauritania, Algeria, Sudan.

L’esempio più recente della presa che gli integralisti hanno sui fedeli islamici arriva dall’India. La sera dell’11 agosto centinaia di musulmani hanno protestato a Bangalore, la capitale dello stato di Karnataka, per un post che offendeva il profeta Maometto pubblicato su Facebook dal nipote di un parlamentare. I dimostranti – riferisce l’agenzia di stampa AsiaNews – hanno raggiunto l’abitazione del politico, hanno lanciato sassi, compiuto atti vandalici, incendiato una quindicina di veicoli. Hanno aggredito i poliziotti intervenuti per sedare la protesta. Quindi hanno dato l’assalto anche al commissariato di polizia di KG Halli, l’area in cui sono scoppiati i tumulti. Le Forze dell’ordine hanno arrestato l’autore del post e 110 persone che hanno partecipato ai due assalti. Il capo della polizia di Bangalore, Kamal Pant, ha giustificato il ricorso alle armi dicendo che i suoi agenti hanno dovuto sparare perché con gas lacrimogeni e sfollagente non riuscivano a fermare la furia della folla. I disordini si sono conclusi con un bilancio di tre morti tra i dimostranti e 60 poliziotti feriti.