Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Graziano a cura di Ermes Dovico
VENERDÌ SANTO

Non solo INRI. Cosa c’era scritto sulla Croce

Sulla croce su cui venne crocifisso il Signore non era visibile solo la sigla INRI, che sta per «Gesù nazareno, re dei Giudei». Oltre che in latino, l’iscrizione era in ebraico e greco, come informa san Giovanni Evangelista. E la scritta ebraica svela il motivo per cui i Giudei cercarono, invano, di convincere Pilato a cambiarla…

Ecclesia 10_04_2020

«Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: “Gesù il Nazareno, il re dei Giudei”. […] era scritta in ebraico, in latino e in greco». (Gv 19, 19-20)

Prima che Giovanni, sul finire della sua lunga vita terrena, scrivesse il quarto e ultimo Vangelo, gli evangelisti Matteo, Marco e Luca avevano riferito della scritta posta sulla Santa Croce. Quella scritta, il titulus crucis, che nelle iniziali latine è resa dalla celebre sigla INRI (Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum)[1], sintetizzava il motivo della condanna di Gesù, «il re dei Giudei», che con la sua testimonianza era stato, come profetizzato da Simeone, «segno di contraddizione».

Il discepolo prediletto, com’è noto, è l’evangelista che più si è dedicato all’approfondimento teologico del Verbo fatto carne. E, certamente ispirato dalla divina Provvidenza, lo ha fatto senza ripetere molti degli episodi della vita di Gesù già riferiti dai sinottici, ma integrando questi ultimi con racconti (dalle Nozze di Cana al dialogo con la Samaritana) e particolari che riteneva essenziali. Perché, tra questi particolari, san Giovanni Evangelista ha voluto dirci che l’iscrizione sopra la Croce fosse in ebraico, latino e greco?

Per rispondere, bisogna prima guardare all’Antica Alleanza e alla sacralità che circonda il nome di Dio, tenendo a mente che la progressiva rivelazione di questo nome e del suo significato occupa un posto centrale nella pedagogia divina, dunque nella storia della Salvezza.

Nella teofania del roveto ardente, descritta nel libro dell’Esodo, Dio si rivela a Mosè e gli ordina di tornare in Egitto per liberare il Suo popolo dal giogo del faraone e condurlo alla Terra Promessa. Davanti a un ordine così immane, Mosè manifesta le sue domande, chiedendo in quale modo avrebbe potuto convincere gli Israeliti a seguirlo e quale nome di Dio avrebbe dovuto rivelare loro. «Io sono colui che sono!», si sentì rispondere da Dio. E ancora: «Così dirai agli Israeliti: “Io-Sono mi ha mandato a voi”» (Es 3, 14). Questo nome, come insegna il Catechismo, indica che «Dio è la pienezza dell’essere e di ogni perfezione, senza origine e senza fine» (CCC 213), causa dell’essere di tutte le creature.

Il nome di Dio, Io Sono, è reso con il sacro tetragramma YHWH (Yahvè). La sua pronuncia esatta, come spiega una nota alla Bibbia della Cei (2008), «non è giunta fino a noi», perché «a partire dal periodo del secondo tempio, il nome di Dio non venne più pronunciato, a motivo della sua santità, e venne sostituito probabilmente dal termine Adonay (in greco Kyrios, che significa Signore)».

In che modo tutto questo si lega al racconto di san Giovanni e in particolare al Venerdì Santo? Torniamo alla pienezza dei tempi. L’evangelista riferisce che Gesù, nel pieno della sua attività pubblica, dopo aver cercato di spiegare ai Giudei il suo essere consostanziale al Padre, fece loro questa profezia: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono […]» (Gv 8, 28). L’innalzamento a cui si riferiva il Signore era la crocifissione.

E arriviamo alla Passione. Nello stesso versetto in cui informa della scritta in tre lingue, Giovanni rende noto che «molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città». Era, dunque, una scritta ben visibile. I sommi sacerdoti protestarono allora con Pilato. «Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei». Ora, come già osservavamo in un precedente articolo, è verosimile pensare che la sola scritta «re dei Giudei» infastidisse coloro che avevano condannato Gesù, non riconoscendolo come Messia. Ma per loro, in quella scritta, c’era un grande problema in più.

Si ricorderà infatti che nel processo religioso, davanti al sinedrio, il sommo sacerdote si stracciò le vesti, accusando il Signore di bestemmia, solo dopo aver udito dalle labbra di Gesù la conferma che Lui fosse il Figlio di Dio. Era questa, per i suoi accusatori, la vera inconcepibile colpa del Nazareno, essere uomo ma «farsi» Dio.

INRI era la sigla latina, ma qual era la scritta in ebraico? Grazie a quanto divulgato dallo scrittore Henri Tisot (1937-2011), e non solo da lui, è ormai nota l’esatta trascrizione in ebraico di «Gesù nazareno, re dei Giudei». Tisot consultò diversi rabbini scoprendo che le lettere ebraiche corrispondenti dovevano essere שוע הנוצרי ומלך היהודים. Traslitterando, vocalizzando e tenendo presente la lettura da destra verso sinistra, si ottiene: Yeshua Hanotsri Wemelek Hayehudim. Le iniziali danno il sacro tetragramma: YHWH. Cioè: Io Sono. Si compì così la profezia fatta da Gesù prima della Passione.

Quei Giudei che non avevano creduto in Lui, quindi, protestarono perché si videro davanti agli occhi - proprio nel momento in apparenza più umiliante per il Crocifisso - la Verità fatta carne che avevano rifiutato e che continuavano a rifiutare. Si sa come rispose Pilato di fronte alla loro protesta: «Quel che ho scritto, ho scritto» (Gv 19, 22).

Se la negazione della divinità di Cristo è sempre stata la madre di tutte le eresie, quest’altra profezia compiuta ci offre un’ulteriore occasione per fare memoria, rendere grazie e contemplare Colui che ci ha amato e ci ama di un amore così folle da farsi inchiodare alla croce.

 

[1] “Nazarinus”, secondo il frammento di tavoletta custodito a Roma nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme e che corrisponderebbe alla forma corretta del latino nel I secolo.