"Non si scappa da un Paese dove non manca nulla"
Eritrea: i vescovi evitano di contestare direttamente il regime, ma non usano mezzi termini per descrivere lo stato di orrore in cui si vive. E anche in Nigeria, i cristiani sono quotidianamente minacciati dalla violenza di Boko Haram.
L’Eritrea ha festeggiato il 24 maggio il 21° anniversario della sua indipendenza dall’Etiopia, conquistata dopo una guerra durata 30 anni. Per l’occasione, quattro vescovi cattolici hanno pubblicato una lettera: 38 pagine scritte in tigrino per descrivere la vita oggi in Eritrea, un paese che definiscono “deserto” per le tantissime persone fuggite oltreconfine, rinchiuse nelle carceri e confinate nelle caserme.
Come è successo in molti altri stati africani, l’indipendenza in effetti non ha portato agli eritrei la libertà e lo sviluppo per cui avevano lottato. Isaias Afewerki, il leader dell’Eritrean People’s Liberation Front celebrato all’epoca come un eroe e come esempio di una nuova, promettente generazione di capi africani, ha subito imposto al paese un regime oggi considerato uno dei più oppressivi del continente e del mondo: un partito unico, elezioni promesse e mai indette, repressione spietata del dissenso, servizio di leva quasi a vita, controllo assoluto sull’informazione, detenzioni arbitrarie, torture fanno del piccolo stato del Corno d’Africa un gigantesco lager dove si sopravvive in povertà e nel terrore. Sono almeno 10.000 gli eritrei in carcere per reati politici. Il servizio militare è obbligatorio per uomini e donne e può essere prorogato a tempo indeterminato. Ogni mese, secondo un rapporto di Amnesty International pubblicato nel 2013, da 2.000 a 3.000 eritrei lasciano il paese clandestinamente affrontando pericoli estremi. Ma il regime raggiunge anche la diaspora, imponendo ai cittadini emigrati il pagamento di una tassa del 2% sui redditi e sulle rimesse, con la minaccia di ritorsioni sui famigliari rimasti in patria in caso di rifiuto.
Nessuno va in cerca di terre d’abbondanza se vive in un paese dove non manca di nulla, scrivono i vescovi nella loro lunga lettera: gli eritrei “vanno in paesi dove si vive in pace, dove regna la giustizia, dove ci si può esprimere liberamente, dove si può lavorare e guadagnare”. Ben consapevoli delle possibili conseguenze della loro temeraria iniziativa, Monsignor Mengsteab Tesfamariam, vescovo di Asmara, Monsignor Tomas Osman, vescovo di Barentu, Monsignor Kidane Yeabio, vescovo di Keren, e Monsignor Feqremariam Hagos, vescovo di Segeneiti, hanno fatto attenzione a non criticare mai direttamente il governo. Tuttavia il rischio che corrono è enorme: senza mezzi termini, hanno definito la situazione dell’Eritrea “assolutamente vergognosa e inaccettabile”. Nel 2007 il capo della Chiesa Ortodossa, il Patriarca Abune Antonious, è stato rimosso dall’incarico solo per aver accusato il governo di interferire nelle attività religiose: benché non gli sia stato contestato alcun reato, resta tuttora agli arresti domiciliari e sottoposto a stretta sorveglianza.
I Cristiani in carcere, alcuni da oltre 10 anni, sono più di mille, stando alle informazioni raccolte dall’ONG in esilio Release Eritrea. La classifica Open Doors 2014 degli stati che più perseguitano i cristiani colloca l’Eritrea al 12° posto, tra quelli in cui la persecuzione è estrema.
Il coraggio non manca neanche ai vescovi della Nigeria, paese al 14° posto nella classifica di Open Doors. I jihadisti Boko Haram tra il 1° e il 3 giugno hanno ucciso più di 200 persone, in gran parte cristiane. Nei due giorni successivi hanno conquistato sette villaggi nel nordest, facendo altre vittime, almeno 100. Il 9 giugno hanno attaccato tre villaggi e vi hanno rapito 30 donne che si aggiungono alle quasi 300 già in mano loro. Ad accrescere l’inquietudine sulla loro sorte e sul destino della nazione è stata la notizia diffusa il 3 giugno che 15 alti ufficiali dell’esercito sono stati giudicati da una corte marziale colpevoli di aver fornito armi e informazioni a Boko Haram, a conferma del fatto, denunciato dallo stesso presidente Goodluck Jonathan già nel gennaio del 2012, che il movimento ha aderenti e sostenitori tra le forze armate: e, non solo, anche nei servizi segreti, nel governo, tra i politici e i funzionari statali.
“Non vogliamo più sentire il nome di Gesù” gridava uno dei jihadisti che a gennaio hanno attaccato la chiesa del villaggio di Chakawa, nello stato nordorientale di Adamawa, uccidendo 52 fedeli “per oggi avete smesso di cantare, canterete nelle vostre tombe, voi cristiani buoni a nulla”.
La regola di Boko Haram è: “uccidi il padre, violenta la madre, rendi orfani i bambini e distruggi la chiesa”.
La Conferenza episcopale nigeriana nei giorni scorsi ha chiesto a tutta la nazione di unirsi in preghiera per la pace nei prossimi sei mesi, da luglio a dicembre. Ogni mese le preghiere avranno una speciale intenzione: a luglio, per la liberazione di tutte le persone rapite; ad agosto, per coloro che soffrono a causa della violenza; a settembre, per gli agenti di sicurezza morti o feriti in difesa del paese; a ottobre, per l’unità, la pace e il buon governo; a novembre, per l’eliminazione della corruzione e la promozione della giustizia; a dicembre per la promozione della famiglia e dei valori famigliari e per la protezione della vita umana. I vescovi suggeriscono di pregare sia in famiglia che a livello parrocchiale, diocesano e nazionale. Il 13 e 14 novembre si svolgerà inoltre un pellegrinaggio al Centro ecumenico nazionale della capitale Abuja. Sarà soprattutto in quei giorni che ai cristiani nigeriani serviranno le preghiere di tutti i cristiani del mondo.