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DOPO MONACO

Non censuriamo la natura della minaccia

Chiudere il caso Monaco spiegandolo col fatto che l’assassino era uno squilibrato,  come sembra stia accadendo, è un grosso equivoco. Più che di incapacità di capire la situazione si tratta di una voluta censura. Se infatti si dicessero le cose come stanno, la soluzione risulterebbe sgradita ai più: l'Occidente dovrebbe riscoprirsi cristiano.

Esteri 24_07_2016
L'attentatore di Monaco

Al di là dell’inarrestabile e inutile valanga di luoghi comuni e di particolari irrilevanti, che da ieri le tv continuano a diffondere riguardo alla strage di Monaco di Baviera, ciò che più colpisce (o che dovrebbe più colpire) è la radicale incapacità di analisi della situazione. Pur così duramente sfidata dal sempre più frequente ripetersi di feroci massacri di civili inermi e inconsapevoli, la cultura dominante del mondo in cui viviamo si dimostra sin qui incapace di approfondirne le ragioni. Forse però più che di incapacità si tratta di una voluta censura. Se infatti lo facesse dovrebbe poi giungere a una conclusione che non intende accettare: ossia di non essere affatto in grado di dare a tale sfida una risposta efficace. 

L’Occidente non solo non sarebbe arrivato dove è, ma nemmeno sussisterebbe oggi se nel vissuto quotidiano e nella cultura popolare non restasse ancora molto della mentalità cristiana. Ricordiamo qui infatti, seppure per inciso, che per questo e non per altro l’Occidente ha avuto il maggior sviluppo che ha avuto. Poi, specialmente in età coloniale, della forza venutagli da tale maggior sviluppo ha anche abusato. Tuttavia le depredazioni dell’età coloniale di ciò sono una conseguenza, e non una causa. Un tempo risultava evidente che il resto del mondo era rimasto più indietro perché non aveva o non aveva abbastanza quelle strutture di fondo che all’Europa e all’Occidente in genere venivano da tale eredità: dall’etica del sacrificio per il bene alla valutazione positiva della materia, dalla cultura del lavoro a quella capacità di dar vita a grandi organizzazioni che è possibile solo se la fiducia reciproca è una comune regola di vita. Ci sono ad esempio pagine molto interessanti in proposito nell’autobiografia di Gandhi. Se infatti da un lato egli si dedicava con grande determinazione alla  causa dell’indipendenza del suo Paese dalla Gran Bretagna, dall’altro ammirava il grado di sviluppo e le capacità di governo degli inglesi; e si domandava che cosa gli indiani potevano e dovevano fare per giungere a non essere da meno. Oggi invece le radici etiche e culturali di tale maggiore sviluppo  non risultano affatto evidenti, sommerse come sono dalla lava di una cultura di massa all’insegna del relativismo e dell’edonismo più squallidi e banali: è questa l’immagine più visibile e l’idea più immediata  che l’Occidente dà di sé. In tale prospettiva, in particolare in ambiente musulmano, il suo maggiore sviluppo non soltanto non desta più ammirazione, ma anzi nella sua incomprensibilità dà scandalo: uno scandalo che può anche degenerare, come si è purtroppo visto, in follia omicida. L’Islam porta con sé un’idea di conquista e di dominio la quale, più che al suo interno, può trovare un limite nella fermezza dell’altro da sé con cui si incontra. Se però tale limite è costituito da una forza  senza  alcun evidente vigore morale tanto più gli risulta insopportabile.

Se dunque nell’immediato, a livello per così dire tattico, al pericolo del terrorismo islamista occorre dare efficaci risposte di polizia, ha ragione il premier Matteo Renzi a dire, come ha detto ieri, che a livello strategico è poi decisiva la risposta sul piano culturale. Purtroppo però né da lui né dal resto dell’ordine costituito politico e intellettuale può venire in proposito alcun contributo efficace. Un tale contributo può venire soltanto da ambiti non subalterni all’estenuata cultura post-illuministica oggi dominante; e in primo luogo da ambienti cristiani. Indisponibile invece a qualsiasi salutare esame di coscienza, il grande circo massmediatico cerca di mettersi al riparo inventando formule senza alcun serio contenuto da quella del “lupo solitario” a quella della “radicalizzazione istantanea”. Così ieri in Francia e oggi in Germania le forze di polizia perdono tempo su questioni ormai irrilevanti come il nesso organizzativo o meno degli attentatori con l’Isis o con altre più o meno fantomatiche multinazionali del terrorismo islamista. Può darsi che in qualche caso tale nesso vi sia, ma non è affatto determinante. Ciò impone alle forze di polizia l’elaborazione di nuove tecniche di contrasto, diverse dalla tradizionale ricerca della banda di terroristi e dei suoi nessi organizzativi a monte o a valle. Si tratterà fra l’altro di fare molto più ampiamente  e accuratamente un lavoro di filtraggio del traffico dei messaggi telematici, e quindi di individuare via via delle “communities” da controllare con specifica attenzione. 

Iniettando infatti odio con moderne tecniche di persuasione di massa in un ambiente sociale a disagio oggi si può essere abbastanza certi di armare la mano di qualcuno dei più fragili e instabili fra gli individui che ne fanno parte. E ciò tanto più se si suggerisce di uccidere facendo uso non di armi da guerra e di bombe bensì di strumenti e oggetti di uso comune o comunque facili da reperire, come il camion dell’attentatore di Nizza, l’accetta dell’attentatore di Wurzburg, e la pistola di quello di Monaco di Baviera. Chiudere pertanto il caso spiegandolo col fatto che l’assassino era un  “lupo solitario”  o uno squilibrato,  come sembra stia accadendo a Monaco, è un grosso equivoco. In ultima analisi infatti  è comunque di un attacco terroristico che si tratta. Un attacco in cui l’attentatore viene pilotato da una centrale terroristica non meno del terrorista tradizionale.