Non c'è più la sinistra, il Pd si vergogna del suo nome
Il "cantiere" della sinistra, in casa Pd, è pieno di macerie e privo di un’idea di partito. L'elettorato di sinistra non ha più fiducia nel Pd e preferisce votare per M5S. Le feste dell'Unità vanno deserte. La sinistra dei salotti è arroccata nella difesa dei suoi privilegi. Calenda suggerisce di cambiar nome. E' il ritratto di un partito al capolinea.
La sinistra riparte dai fischi e dalle sconfitte per tentare di risollevarsi e riorganizzarsi. Ma il cantiere in casa Pd è pieno di macerie da rimuovere e privo di un’idea di partito da rilanciare. I personalismi, le vendette, l’astio tra capicorrente dominano e non s’intravvede alcuna possibilità di riscatto, almeno nell’immediato. Il congresso, che dovrebbe servire a rianimare il popolo dem e a frenare l’emorragia di voti e iscritti prima delle europee del 2019, rischia in realtà di diventare il momento di certificazione del vuoto progettuale e della crisi irreversibile di un modello di sinistra fuori dal tempo.
I segnali arrivati dalle ultime elezioni politiche e amministrative sono inequivocabili: la gente non ha più fiducia nel Pd e l’ha abbandonato perché si è sentita tradita da Matteo Renzi, ma anche da chi l’ha preceduto (“la ditta”). Le altre formazioni di sinistra come Leu hanno raccolto percentuali irrisorie, a riprova del fatto che non basta cambiare cappello per conquistare il gradimento di un elettorato, sempre più disilluso, esigente, critico e selettivo. La sinistra dei salotti, sempre più in dissolvimento, appare arroccata nell’ostinata difesa dei privilegi accumulati in settant’anni di vita repubblicana; la sinistra apparentemente più genuina sembra aver smarrito la carica ideale e guarda con interesse e speranza al Movimento Cinque Stelle, o almeno a quella parte di esso che mal digerisce l’alleanza con la Lega, e che giudica abbastanza di sinistra la proposta politica pentastellata.
Non a caso tra Nicola Zingaretti, governatore del Lazio e candidato alla segreteria nazionale del Pd, e Roberto Fico, presidente della Camera, si percepiscono segnali di dialogo, incoraggiati da altri esponenti dem, da Graziano Delrio a Dario Franceschini, e da diversi parlamentari grillini. Secondo loro la stagione del governo giallo-verde si consumerà in fretta e i pentastellati potrebbero tornare presto a guardare a sinistra, come peraltro accaduto in occasione della tormentata fase post-elettorale che è culminata, il primo giugno, nella formazione del governo Conte. Nel tentativo esplorativo condotto da Fico e rivelatosi infruttuoso, parte del Pd aveva premuto per un’intesa con i Cinque Stelle, sulla base di innegabili convergenze programmatiche. Ma alla fine ha vinto la linea di Luigi Di Maio che, essendosi contraddistinto negli ultimi anni per una feroce opposizione a Matteo Renzi e all’establishment di sinistra, ha ritenuto più potabile e digeribile per il suo elettorato l’intesa con Matteo Salvini.
I fatti in qualche modo gli stanno dando ragione, visto e considerato che la gran parte (ma non la totalità) dei parlamentari e dei simpatizzanti Cinque Stelle paiono soddisfatti dell’attuale esecutivo giallo-verde. Che nel tempo il Movimento Cinque Stelle possa diventare però un riferimento per il popolo della sinistra non va escluso affatto. Soprattutto se dovesse realizzarsi quello che alcuni politologi profetizzano, e cioè che tra i pentastellati si consumerà prima o poi una scissione tra quanti vorranno arroccarsi sul fronte sovranista di Matteo Salvini e quanti decideranno di recuperare la linea ortodossa delle battaglie originarie del Movimento, trovando più facilmente sponda nella sinistra. Dipenderà tutto dalla durata dell’attuale esecutivo e della legislatura, destinata ad essere probabilmente l’unica a guida giallo-verde. Difficilmente, in prossime elezioni politiche, Lega e Cinque Stelle potranno presentarsi alleate, pena il rischio di lasciare ampie praterie a formazioni politiche vecchie e nuove sul fronte moderato e su quello della sinistra riformista.
Molto più sensato e prevedibile l’approdo a un nuovo bipolarismo con una Lega egemone sul versante del centrodestra e una nuova formazione politica a maggioranza pentastellata pronta ad ereditare la dote elettorale del Pd e delle altre anime della sinistra. Il tutto dipenderà, ovviamente, dalla legge elettorale. Nel frattempo, però, la sinistra raccoglie i cocci del renzismo e si lecca le ferite. Tanti i bocconi amari da ingoiare per il cerchio magico renziano, perfino quello dell’esclusione dalla Festa dell’Unità di Rignano sull’Arno, piccolo paesello alle porte di Firenze che ha dato i natali proprio all’ex premier. Alla kermesse non sono stati invitati né Matteo Renzi, né Maria Elena Boschi né Luca Lotti, i tre simboli del potere renziano. Ma tutto sommato per loro lo smacco non è poi così umiliante, considerato che da anni le Feste dell’Unità, per decenni crocevia delle novità politiche autunnali, sono ormai ridotte a sagre di quartiere autocelebrative e autoreferenziali, e chissà per quanto ancora continueranno a svolgersi. In questo senso appare significativo l’annullamento della Festa dell’Unità di Savignano sul Rubicone, nel cuore della Romagna rossa, a causa della mancanza di cuochi volontari. Peraltro nel Cesenate, su oltre quaranta feste dell’Unità, nel giro di pochi anni ne sono rimaste meno di una decina. Una moria che appare irreversibile, così come il crollo del numero di iscritti al Pd.
In questa fase storica sia il Pd che Forza Italia, altro partito agonizzante e all’opposizione, auspicano una rottura tra Lega e Cinque Stelle per poter sperimentare alleanze con quei due partiti. Silvio Berlusconi lavora per una ricomposizione del centrodestra e si dice disposto ad accettare la leadership di Matteo Salvini, rendendosi conto che con i voti della Lega quasi certamente le elezioni potrebbe tornare a vincerle. Il Pd mira a far emergere le contraddizioni all’interno del Movimento Cinque Stelle e a far esplodere il patto di governo attuale, affinchè il pallino pentastellato possa finire nelle mani degli ortodossi, capitanati da Roberto Fico, disponibile a riannodare i fili del dialogo con il Pd e la sinistra.
Il campo Pd, però, sembra una babele: il segretario provvisorio, Maurizio Martina corre per conto suo e spera di blindarsi alla guida del partito anche dopo il congresso, Nicola Zingaretti vuole contendergli la segreteria per poi cambiare collocazione al Pd, il redivivo Walter Veltroni auspica la riscoperta di un’identità di sinistra da contrapporre al sovranismo giallo-verde, Carlo Calenda teme nuove sconfitte se il Pd non cambierà nome. Ma se un partito si vergogna perfino del suo nome significa che è davvero giunto al capolinea.