Non c'è azione buona senza preghiera
Colpisce nell'esortazione apostolica sulla santità la descrizione di un primato dell'azione che arriva fino all'incomprensione della vita contemplativa. Non così la viveva una santa della carità come madre Teresa di Calcutta o un uomo d'azione come Giorgio La Pira.
È sempre positivo che ci venga ricordato che «per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità» e che «tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui». E con questo spirito accogliamo dunque l’esortazione apostolica Gaudete et Exsultate.
Per comprendere meglio il senso di questo documento è tuttavia necessario chiedersi anche il motivo per cui viene proposto. Un documento è infatti giustificato dalla necessità di riproporre un tema dimenticato o perché si intende dire qualcosa di nuovo. Escluderemmo la prima ipotesi: da Giovanni Paolo II in poi il tema della santità è stato infatti al centro della preoccupazione pastorale. Con papa Wojtyla, soprattutto attraverso la canonizzazione di tanti santi moderni, indicati come esempio al popolo di Dio: 482 i santi e 1345 i beati proclamati in 27 anni, praticamente lo stesso numero dei quattro secoli precedenti. Benedetto e Francesco hanno sostanzialmente continuato sulla stessa strada, rendendo quindi la santità un fatto familiare, al punto che sono molti oggi coloro che possono dire di aver conosciuto personalmente almeno un santo o un beato.
Dunque è più probabile che Gaudete et Exsultate si giustifichi con la necessità di dire qualcosa di nuovo e di diverso sulla santità. In effetti già nel sottotitolo si parla di «chiamata alla santità nel mondo contemporaneo»: la curiosità linguistica, visto che la chiamata alla santità è sempre nel mondo contemporaneo, vuole evidentemente affermare che c’è qualcosa nella società di oggi che richiede una ridefinizione del concetto di santità. In effetti, se si voleva semplicemente elencare le caratteristiche e le indicazioni per una vita santa – cosa che viene fatta per buona parte dell’esortazione – sarebbe bastato consigliare la lettura dell’Imitazione di Cristo, un classico della spiritualità, sempre attuale e pedagogicamente insuperato.
Con Gaudete ed Exsultate si vuole dunque introdurre qualcosa di nuovo, porre un accento nuovo, sicuramente in linea con i temi ormai noti di questo pontificato. Dire “nuovo” in realtà sembra azzardato perché chi ha vissuto gli anni ’70 del XX secolo non può non ritrovare qui l’eco di una certa teologia politica allora di moda, il cui esito era che «Non basta più pregare», come diceva il titolo di un famoso film cileno del 1971. Era la storia di un prete che a contatto con l’estrema povertà pian piano si converte alla battaglia per la giustizia sociale. Oggi la terminologia è in parte cambiata ma in Gaudete et Exsultate, pur senza dimenticare la preghiera, è chiarissimo il primato dell’azione, che arriva fino all’incomprensione per la vita contemplativa: «Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione».
Eppure una santa della carità come madre Teresa di Calcutta insegna una prospettiva ben diversa, come appare chiaro dall’aneddoto riportato tempo fa da monsignor Angelo Comastri, che vantava una lunga amicizia con la santa. Riferendosi a una occasione quando egli era ancora prete, monsignor Comastri ricorda: «Mi guardò con due occhi limpidi e penetranti. Poi mi chiese: “Quante ore preghi ogni giorno?”. Rimasi sorpreso da una simile domanda e provai a difendermi dicendo: “Madre, da lei mi aspettavo un richiamo alla carità, un invito ad amare di più i poveri. Perché mi chiede quante ore prego?”. Madre Teresa mi prese le mani: “Figlio mio, senza Dio siamo troppo poveri per poter aiutare i poveri! Ricordati: io sono soltanto una povera donna che prega”. Ci siamo rivisti tante altre volte, ma ogni azione e decisione di Madre Teresa dipendeva dalla preghiera: “Pregando, Dio mi mette il suo amore nel cuore, e così posso amare i poveri”».
Ma sul rapporto tra preghiera ed azione c’è un altro esempio che vale la pena ricordare, quello del servo di Dio Giorgio La Pira. Fin dall’inizio del 1951, anno in cui divenne poi sindaco di Firenze e da lì iniziò una grande attività internazionale per la pace, coinvolse tutti i monasteri di clausura nella sua incessante azione: da quel momento non ci fu iniziativa o decisione che non fosse accompagnata da una lettera di richiesta di preghiera alle claustrali, a cui La Pira spiegava dettagliatamente motivi e intenzioni della sua azione. Ed ecco come alla fine del 1951 La Pira spiega la necessità di «un “ponte” da stabilire fra due sponde, che sono parimenti essenziali alla vita della Chiesa ed a quella della civiltà: la “sponda” della contemplazione e la “sponda” dell'azione». Spiega dunque La Pira alle suore: «Il mondo “profano”, cioè il mondo specificamente umano, il mondo che si edifica attraverso la vita tecnica, economica, sociale, politica e culturale, questo mondo che è, in certo modo, il mondo dell'azione, dell'attività esterna, del dinamismo incessante, domanda, spesso inconsapevolmente, una cosa sola: l'acqua della grazia, la dolcezza sperimentata dal silenzio, le vitali intuizioni della solitudine, i frutti soavissimi dell'orazione, le delicate e verginali purità della luce interiore.
Questo mondo così attivo chiede, senza averne spesso consapevolezza, il riposo della contemplazione, il corroborante “sonno” della fruizione di Dio; esso domanda di costruirsi per trovare saldezza e fecondità sulla roccia dell'orazione: è come una pianta che non può vivere staccata dalle sue radici; esso avverte che solo dalle profondità della adorazione e della contemplazione di Dio gli può derivare la linfa che dà giovinezza e vita. Ed ecco allora rispuntare sull'orizzonte della civiltà contemporanea la linea aggraziata e severa, ferma e delicata, dei monasteri di clausura.
Eccole, le pietre di fondamento sulle quali la società moderna cerca, ancora inconsapevolmente, di costruire il proprio edificio: sono queste le oasi della pace, le fontane dell'acqua viva; è questo il domicilio del silenzio, della solitudine; qui la “parte migliore” è svolta nella sua pienezza; qui nella pace vivificante riposano in certo modo insieme Dio e l'uomo: hic manebimus optime (Tito Livio) et qui creavit me requievit in tabernaculo meo.
E, dall'altro lato, cosa domanda il mondo contemplativo? Anche qui la risposta è chiara: domanda di penetrare con il lievito della grazia, con la linfa dell'orazione, con la mitra della penitenza, con la potenza dell'amore nelle strutture più intime del mondo “profano”; domanda di arare e di fecondare l'intiero territorio dell'uomo: vita personale e vita familiare, vita economica e vita sociale, vita politica e vita culturale, tutta la vita umana costituisce l'oggetto di questa domanda incessante: è la domanda medesima di Cristo: si estende tanto quanto si estende l'uomo. Quale campo sterminato di lavoro, quanta terra da arare, quanti solchi da aprire, quanta irrigazione di grazia e di pace!».