Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
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Non allergia alla Corredentrice ma fedeltà all'unico Redentore

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Il presidente della Pontificia Accademia di Teologia risponde all'articolo di Luisella Scrosati: l'intenzione della Mater populi fidelis «non è sminuire Maria, ma proteggere la verità della Redenzione». Secondo il presule, elevare la Vergine «a un "ordine ipostatico" superiore a ogni creatura» le conferirebbe una «natura ibrida».

Ecclesia 27_11_2025
ALESSANDRO AMORUSO - IMAGOECONOMICA

La posizione del documento Mater Populi fidelis non è dettata da un'"allergia" o da una sottovalutazione di Maria, ma da una fedeltà coraggiosa ai cardini della fede cattolica: l'unicità di Gesù Cristo e la sufficienza della sua opera redentrice. Il suo cuore è cristologico. Non si (dis-)perde in una disputa mariologica fine a sé stessa.

Anzitutto, è necessario ribadire con san Tommaso d'Aquino che la fede cristiana ha per oggetto la res (la realtà divina), non gli enunciati. Perciò, ogni termine, per quanto radicato nella pietà, se anche solo semanticamente tende a suggerire un'opera salvifica "parallela" o "complementare" a quella di Cristo, rischia di minare la fede in Cristo “unico redentore”. Il termine “corredentrice” in bocca a san Giovanni Paolo II, uomo di spiritualità indiscutibilmente cristocentrica, non fa alcun problema. Direi la stessa cosa per il magistero di Leone XIII e di tanti santi che l’hanno utilizzato: penso al Padre maestro di Lucera, san Francesco Antonio Fasani, a cui ho dedicato un ampio studio critico nel mio saggio mariologico – Maria di Nazareth da conoscere e amare. Teologia devozione poetica omiletica (LEV 2016).

Diversamente da chi dichiara che “il titolo non gli piace” – e però poi non spiega “i perché”, impegnandosi a “dire” che il Documento è “fatto male” –, a me il titolo “piace molto” e tuttavia rifletto teologicamente sulle preoccupazioni dell’alto Magistero (solo per inciso, il Documento è firmato da Sua Santità Leone XIV che, da cardinale, ha seguito anche l’iter di approfondimento e di definizione): l'intenzione non è sminuire Maria, ma proteggere la verità della Redenzione, che è azione sovrabbondante e sufficiente di Dio in Cristo. È questo il motivo vero per cui Benedetto XVI – sulla scia del Concilio Vaticano II – non ha mai usato questo termine.

La teologia di Ratzinger è caratterizzata da una forte reazione contro le visioni puramente "giuridiche" della Redenzione (la teoria soddisfattoria di Anselmo interpretata in modo troppo forense). Per lui, la Croce non è primariamente il pagamento di un debito a un Dio giudice irato, ma è l'atto supremo dell'Amore trinitario che vince il male. In questa prospettiva, il ruolo di Maria non è quello di "co-offrire una soddisfazione", ma di essere la creatura che, per prima e in modo perfetto, si lascia amare e trasformare da quell'Amore, diventandone il modello e la madre per tutti i credenti. La sua posizione di silenzio sul termine "Corredentrice" e la sua preferenza per un linguaggio più scritturistico ("donna", "madre", "discepola", "collaboratrice") si allinea perfettamente a questa visione come si può approfondire nel mio saggio Madre di Dio. La mariologia personalistica di Joseph Ratzinger (San Paolo 2010).

L'articolo Leggere Staglianò per capire l'allergia alla Corredentrice offre una lettura intelligente di un dibattito teologico sentito. Tuttavia, l'autore costruisce un argomento che, se seguito fino in fondo, condurrebbe a conseguenze dottrinali preoccupanti. Il fulcro della critica ruota attorno al concetto di una dissimilitudo minor, per cui Maria, apparterrebbe a un "ordine ipostatico" superiore a ogni creatura. Il concetto è chiaro: Maria occuperebbe uno status ontologico intermedio tra Dio e la creatura. Come diversamente si potrebbe comprendere la frase dell’autore: «Maria Santissima, come Immacolata Madre di Dio, è elevata all’ordine ipostatico (che non significa che ella goda dell’unione ipostatica); e questo la pone incommensurabilmente al di sopra di ogni creatura, di ogni santo e di ogni angelo».

La questione non è allora più pastorale o linguistica, ma ontologica. Si ritiene che il rifiuto del titolo "Corredentrice" derivi da una visione insufficiente della natura singolare di Maria, dell’ordine ipostatico a cui è stata elevata. La sua critica non è solo che si neghi un titolo, ma che si neghi la realtà ontologica che quel titolo descriverebbe. E cosa è un “ordine ipostatico” che non è il godimento dell’unione ipostatica di Cristo?

Poiché Maria è Madre di una Persona Divina (il Verbo incarnato), la sua esistenza non potrebbe più essere compresa all'interno dei normali binari "Creatore-creatura". Ella verrebbe "elevata" a un ordine singolare, un tertium genus ontologico: inferiore all'unione ipostatica di Cristo (dissimilitudo maior), ma superiore a qualsiasi altro ordine creato (natura, grazia santificante, gloria) (dissimilitudo minor). In questo stato, Lei non è "solo una creatura", ma è "più che creatura" in senso ontologico. Dante, allora, non userebbe una semplice iperbole poetica, ma descriverebbe una realtà metafisica: se Maria appartiene a questo "ordine ipostatico", allora la sua capacità di agire non può essere quella di una “creatura redenta”. La sua collaborazione all'opera della Redenzione non è solo morale (soffrire con il Figlio) o esemplare (essere un modello di fede), ma ontologicamente qualificata. Il suo dolore sul Calvario, offerto in unione a quello del Figlio, ha un valore "quasi-infinito" perché non è il dolore di "una donna", ma dell'Immacolata Madre di Dio appartenente a questo presunto ordine ipostatico. Pertanto, il termine "Corredentrice" non è un'esagerazione devozionale, ma il corretto riflesso linguistico di questa realtà ontologica e funzionale unica, (di cui si dovrebbe fissare un dogma?).

Sic stantibus rebus, spostare il dibattito sul piano filosofico e antropologico è fondamentale, perché rivela il presupposto errato di chi cerca di creare una categoria ontologica intermedia per Maria. L'essere creati "a immagine e somiglianza di Dio" (Gen 1,26) non annulla la distanza infinita tra Creatore e creatura, ma la qualifica in modo sublime. L'umano, per grazia, è chiamato a una partecipazione alla vita divina che ne amplia i confini verso l'infinito, senza per questo farlo uscire dall'alveo della creaturalità. La grazia non soppianta la natura, la perfeziona e la potenzia oltre ogni misura, ma non la trasfigura in altro da sé. Il "divino" nell'uomo è un dono di partecipazione, non un possesso autonomo di essenza.

In questo orizzonte, l'espressione poetica "più che creatura" non indica un tertium genus tra Dio e l'uomo, ma l'abissale pienezza di umanità raggiunta dalla Vergine in virtù della grazia. È l'umanità portata al suo massimo splendore possibile, "divinizzata" dall'azione dello Spirito, non una natura ibrida. È la "figlia del tuo figlio" che, nella sua piena realizzazione come creatura redenta e madre del Redentore, manifesta il trionfo della grazia divina senza cessare di essere il modello della creatura fedele.

*Presidente della Pontificia Accademia di Teologia



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