Nobel dubbio ad Abiy Ahmed Ali. E poteva andar peggio
Poteva andare peggio? Potevano assegnare il Nobel per la Pace a Greta Thunberg col suo carico di rancore. Oppure a Raoni Metuktire, l'indio brasiliano che accusa i non indigeni di distruggere l'Amazzonia. Invece lo hanno dato ad Abiy Ahmed Ali, premier etiope, per la pace con l'Eritrea. Anche se il suo paese è sull'orlo della guerra civile.
Poteva andare peggio? Forse. Potevano assegnare il Premio Nobel per la Pace 2019 a Greta Thunberg che instilla nei suoi coetanei risentimento e rancore contro gli adulti accusandoli di global warming e fenomeni atmosferici di cui non hanno colpa. La sua espressione di odio e rabbia mentre il 23 settembre alle Nazioni Unite minacciava “come osate, avete rubato i miei sogni e l’infanzia con le vostre vuote parole” si legge anche sui volti di decine di migliaia di ragazzi che partecipano agli scioperi del venerdì per quel futuro che secondo loro è sottratto alle nuove generazioni.
Oppure il Nobel poteva andare all’altro favorito, Raoni Metuktire, l’indio brasiliano, capo del popolo Kayapo, acclamato leader ambientalista in lotta per la conservazione delle foreste amazzoniche, della loro biodiversità e delle culture indigene. Solo una generazione fa le nostre tribù erano in lotta tra di loro – ammette Raoni girando il mondo per raccogliere consensi e denaro per i suoi progetti – ma “adesso siamo uniti contro il nostro comune nemico. E quel nemico comune siete voi, i popoli non indigeni…voi che distruggete le nostre terre, avvelenate il pianeta e seminate morte”. Raoni si presenta quasi sempre indossando una corona di piume gialle, rivelando che anche gli indigeni amazzonici minacciano la biodiversità uccidendo tradizionalmente gli animali senza altro motivo che il vezzo di adornarsi, ad esempio, di piume d’uccello. Che poi le culture indigene non vadano preservate in tutto, considerando i danni morali e fisici che le loro tradizioni infliggono alla persona, lo dimostra l’impressionante disco labiale che deforma il suo labbro inferiore e che per fortuna è una delle tradizioni indigene che la “contaminazione” con il resto del mondo ha fatto scomparire.
Poteva andare peggio. Il Nobel per la Pace 2019 invece è stato assegnato a Abiy Ahmed Ali, primo ministro d’Etiopia dall’aprile 2018. Il riconoscimento – si legge nelle motivazioni – “è per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea” è scritto nella motivazione. “E' un riconoscimento e anche una spinta. In Etiopia, anche se rimane molto lavoro, Abiy Ahmed ha avviato importanti riforme che danno a molti cittadini la speranza per una vita migliore e un futuro più luminoso. Come Primo Ministro, Abiy Ahmed ha cercato di promuovere la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale”.
Considerando la situazione dell’Etiopia, in effetti più che un riconoscimento il premio ad Abiy Ahmed va inteso come una “spinta” a fare meglio, a tradurre le parole, le dichiarazioni di intenti in fatti e, se c’è un punto condivisibile nel testo delle motivazioni, è quello in cui si dice che “rimane molto lavoro” da fare. Davvero finora non sono molti i cittadini che mostrano di nutrire la speranza in un “futuro più luminoso”. Certo in meno di due anni non si può rimediare a decenni di politiche economiche e sociali a dir poco discutibili. Forse però qualcosa di più poteva fare un governo che si vanta di aver battuto il record mondiale di piantumazione riuscendo il 29 luglio a far piantare 350 milioni di piantine, con l’obiettivo di arrivare entro breve a quattro miliardi di nuovi alberi.
Ma l’opposizione obietta che il premier usa la campagna di riforestazione per distrarre l’opinione pubblica dai problemi del paese. L’Etiopia, come quasi tutti gli stati africani, è un esempio di come la crescita economica non si traduca in sviluppo umano quando mancano volontà politica e coesione sociale. Vanta crescite del Pil a due cifre – 10,4% nel 2015, 5,4% nel 2016, 10,9% nel 2017 – ma l’83,8% della popolazione soffre di forme di deprivazione che rientrano nella definizione di “povertà multidimensionale”. L’88,2% della popolazione occupata svolge lavori vulnerabili, cioè lavora in condizioni sfavorevoli, ad esempio alle dipendenze di un famigliare senza retribuzione, oppure senza tutele previdenziali e via dicendo.
Ma soprattutto il paese è sull’orlo della guerra civile per l’acuirsi dei conflitti etnici – spesso per il controllo della terra – e delle rivendicazioni autonomiste di alcune etnie, conseguenza di decenni di discriminazioni e marginalità. Nel 2018 il paese ha registrato il più alto numero di profughi, sfollati e rifugiati, quasi tre milioni, e 7,9 milioni di persone, su 108 milioni di abitanti, hanno avuto bisogno di assistenza alimentare.
Quanto alla pace con l’Eritrea, è certo buona cosa. La guerra scoppiata nel 1998 per divergenze sulla linea di frontiera tra i due paesi si era conclusa nel 2000 con un cessate il fuoco che però non aveva messo del tutto fine alle ostilità. L’Etiopia non aveva accettato il confine tracciato da una commissione internazionale nominata dall’Onu e non aveva ritirato le proprie truppe. Quando nel 2008 la Unmee, la missione Onu incaricata di monitorare il cessate il fuoco e far rispettare il confine tracciato, ha concluso il suo mandato, le tensioni si sono accentuate, con reciproche accuse di sconfinamenti e scontri armati, tanto intensi in particolare nel 2012 e nel 2016 da far temere un’altra guerra.
Il 9 luglio del 2018 Abiy Ahmed e il presidente eritreo Isaias Afewerki hanno firmato un accordo di pace e hanno avviato rapporti diplomatici, aperto le frontiere, concordato voli aerei, scambi commerciali. Siccome però la pace si fa in due, il premio avrebbe dovuto essere assegnato a entrambi e forse con un particolare encomio al leader eritreo, una “spinta” nel suo caso a uscire dall’isolamento e aprirsi ulteriormente al mondo.
Ma quella di Afewerki è considerata una delle più dure dittature del pianeta. Era troppo anche per i saggi del Nobel, che pure nel 1994 hanno premiato persino Yasser Arafat, celebrarlo come “uomo di pace”.