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DENTRO IL DRAMMA

Noa e quella richiesta di aiuto che nessuno ha colto

Dichiarando di voler morire, Noa stava in realtà chiedendo una ragione per continuare a vivere, ma per quanto ne sappiamo nessuno è stato capace di offrirgliela. La nostra società ha individui esperti in ogni settore professionale, ma non ha più persone affettivamente adulte, cioè in grado di “sopportare” la dipendenza dei più giovani, facendosi carico delle loro angosce.

Vita e bioetica 11_06_2019

La notizia della morte della diciassettenne Noa ha riaperto la discussione sull’eutanasia; ma il problema vero non è l’eutanasia. Noi abbiamo liquidato la faccenda riducendola a un caso di sofferenza depressiva in seguito a violenza di stupro. Trovata la “causa” ci siamo subito sentiti assolti ed esonerati da qualsiasi riflessione e approfondimento del caso. Ammetto di non sapere molto né della ragazza né delle circostanze, ma sono uno psicologo e so che dietro ogni “desiderio” di morte c’è un impasto affettivo alla cui formazione concorrono molti fattori. Lo stupro è stato probabilmente un elemento importante nel favorire un tale tragico esito, ma non ha deciso - da solo - né la depressione né la morte.

Quale, dunque, il problema? Il problema di Noa è che era il problema di Noa; vale a dire era soltanto suo e di nessun altro. Ora che l’abbiamo commiserata possiamo voltare pagina. Eppure Noa non voleva morire! Lei lo ha comunicato su Instagram, scrivendo: «Voglio arrivare dritta al punto: entro un massimo di dieci giorni morirò». Questa è una richiesta di aiuto, non di morte. Chi vuol morire non annuncia la propria morte, né le persone depresse hanno la “forza” di scrivere o di intrattenere, sia pure virtualmente, rapporti. Dichiarando di voler morire, Noa stava in realtà chiedendo una ragione per continuare a vivere, perché lei, nella sua vita, da sola, non riusciva a trovarla. La ragazza portava dentro di sé un dolore al quale non sapeva dare un significato. Sicuramente si è fatto di tutto per salvarla. Si è ricorso a medici, ad esperti vari, ma il suo male non era nel corpo ma nella mente, una volta chiamata anche anima.

Ora, la mente guarisce quando sente di essere compresa. Capita a tutti di essere in ansia e non riuscire a dormire per un problema, ma poi quando si riesce a parlarne alla persona che dorme accanto a noi improvvisamente ci si addormenta, mentre l’altro/a non dorme più: l’ansia si è come trasferita da una mente all’altra. Quando sentiamo che chi ci ascolta sente quello che noi sentiamo, è allora che si apre una fessura di luce, o di fiducia, nel nostro animo, non ci sentiamo più soli e comincia la nostra guarigione. Comprendere i figli è parte essenziale della funzione genitoriale. Sentirsi compresi vuol dire sentirsi amati. Gli esperti con le loro pillole, i loro sondini, e le loro cure “tecnologicamente avanzate” non potevano aiutare Noa. Alla fine quale sembra essere stata la risposta data alla ragazza? «Se vuoi morire fai pure! Quello che potevamo e dovevamo fare lo abbiamo fatto. La nostra coscienza ci assolve».

A quanto riferiscono i giornali, «lo stato olandese aveva acconsentito alla sua morte decidendo, in accordo con la famiglia, di non intervenire» e «i suoi genitori hanno accettato la sua scelta» (Giulio Meotti, Il Foglio, 6 giugno 2019). In una parola, come società, ce ne siamo lavati le mani. Questo è il problema vero: la nostra società ha individui esperti in ogni settore professionale, ma non ha più persone affettivamente adulte, vale a dire in grado di “sopportare” la dipendenza dei più giovani, facendosi carico delle loro angosce, delle loro paure, o della loro rabbia.

Noi adulti non siamo più in grado di angosciarci dell’angoscia dell’altro, né di tollerarne l’aggressività, soprattutto qualora l’altro (chiunque egli sia: neonato che piange, figlia anoressica, allievo indisciplinato, ecc.) si trovi in una condizione di dipendenza.

Di fronte al caso di Noa, al suo disperato messaggio, lo Stato ha abdicato al proprio dovere, al suo primo compito: quello di proteggere e di aiutare le nuove generazioni a crescere. Abbiamo ormai Stati composti soltanto di elettori, i quali per i governanti sono numeri e percentuali sicuramente utilizzati, come si augurava Giordano Bruno, per promuovere la “virtù” del popolo.

Per Noa non si è trovato nessuno in grado di “comprendere”, cioè di “prendere con sé” il suo dolore, “soffrendo insieme con lei”? Non c’è stato nessuno capace di intrattenere con lei argomenti di speranza. Quel che è drammatico in una società che ha smarrito il senso tragico della vita è che si continua a celare una vacuità diventata insopportabile dietro un’apparenza di rispetto per l’altro, di tolleranza per ogni originalità, di comprensione per ogni stravaganza, di accoglienza di ogni capriccio dichiarato diritto. Famiglia e società si sono allineate: si concede tutto rispettivamente ai figli e agli elettori “per toglierseli di torno” o “per farseli amici”. La nostra società che vuol essere “corretta” è semplicemente “compiacente”.

In quanto “genitori”, forse noi pensiamo di esser progressisti e moderni, forse ci illudiamo di amare i nostri figli con la nostra permissività, fino a esaudire ogni loro richiesta e ad appoggiare ogni loro scelta, persino la scelta di morire. Nessuno di noi può né deve giudicare i genitori di Noa, ma dobbiamo riconoscere che nessuno ha saputo mostrarle quanto quella scelta fosse, per chi l’amava, dolorosa; forse Noa sarebbe viva se avesse sentito che la sua morte provocava, in chi diceva di amarla, una dolorosa angoscia non inferiore a quella da lei provata. Non lo sapremo mai, ma sappiamo che nessuno ha provato, in un estremo tentativo di disperazione, di parlare a Noa che forse la vita non finisce con la morte cerebrale, che forse dopo questa vita c’è una vita eterna, che forse c’è Dio.