Noa e noi. Solo in Cristo la sofferenza acquista senso
Una ragazza di 17 anni si lascia morire perché oppressa dalla sofferenza, ma cosa sta dietro a una scelta simile? Non siamo fatti per la sofferenza, eppure essa è fisiologica, non patologica. Se liberamente accettata e offerta, rende l'uomo simile a Cristo, acquistando valore redentivo. Una società materialista non la comprende: per vivere nonostante la sofferenza, infatti, serve un fine. Che trascende l'uomo.
Il caso di Noa Pothoven, la ragazza olandese di 17 anni che si è lasciata morire di fame e di sete, sta già facendo discutere. E non senza motivo. Da bambina, Noa è stata stuprata almeno tre volte: a 11, 12 e 14 anni. Non metto in dubbio la notizia, ma sicuramente qualche interrogativo sorge spontaneo. Com'è possibile? E da chi, è stata stuprata?
Questi episodi sarebbero la causa di depressione, disturbi alimentari, autolesionismo e crisi d’ansia; nessuno può mettere in discussione che gli abusi sessuali abbiano causato delle profonde ferite, ma limitarsi a questa relazione causa-effetto potrebbe essere riduttivo. Anche in questo caso, i dubbi si affollano.
Infine, l’ovvia polemica: se avesse potuto avere l’eutanasia, Noa non si sarebbe suicidata. Eppure - anche questo va ricordato - alla ragazza era stata rifiutata l’eutanasia perché una psicoterapia è ritenuta un trattamento più idoneo, nei confronti della depressione.
Resta il fatto: al di là delle polemiche, dei dubbi e delle questioni rimaste aperte, una ragazza di 17 anni si è lasciata morire di fame e di sete perché oppressa dalla sofferenza.
Mi torna alla mente il caso di Eelco de Gooijer, il trentottenne olandese che ha chiesto insistentemente l’eutanasia fino a ottenerla. Era obeso; aveva varie diagnosi psichiatriche non meglio specificate. «Eelco non era felice nella vita. Voleva smettere di soffrire e la morte era l'unica via», dichiarò la madre. In entrambi i casi, questi giovani hanno deciso di smettere di vivere a causa della sofferenza. Cosa significa?
Sappiamo che la sofferenza è compagna di viaggio dell’uomo su questa terra, conseguenza del peccato originale. Noi non siamo fatti per la sofferenza, eppure la sofferenza è fisiologica, non patologica.
Ma, soprattutto, sappiamo che la sofferenza, se liberamente accettata e offerta, ha un valore redentivo. Rende l’uomo simile a Cristo che, con la sua sofferenza, ha pagato la salvezza degli uomini. È, in qualche modo, il télos dell’uomo: fine e, insieme, piena realizzazione.
Sono recentemente venuto a sapere di una giovane consacrata (per la quale spero inizi presto un processo di beatificazione), costretta a letto tra grandissime sofferenze, che ha offerto il suo dolore per chi glielo chiedeva. E ha ottenuto molto. Ma, al di là di questo, il fatto che la sofferenza sia un motivo per decidere di morire è tutt’altro che scontato.
Potremmo citare i soldati italiani dell’ARMIR (Armata italiana in Russia), costretti a ritirarsi per settimane, senza viveri, a temperature proibitive, combattendo continuamente per liberarsi la strada e tornare in Italia. Chi sopravvisse, vi tornò. Oppure Giovannino Guareschi, che sopravvisse ai lager tedeschi per tornare dai suoi figli: «Non muoio neanche se mi ammazzano», si disse.
Esperienza condivisa dallo psichiatra Viktor Frankl, che osservò come alcuni compagni di prigionia morivano mentre altri sopportavano sofferenze indicibili, sopravvivendo. I secondi, rifletté, hanno un motivo per vivere. Da queste osservazioni nacque la sua «Logoterapia», una psicoterapia che consiste nel cercare un significato della propria esistenza.
Forse il punto è proprio questo: per vivere nonostante la sofferenza (che lo ripeto, accompagna l’esistenza umana) serve un motivo, uno scopo, un fine. Un fine che trascende noi stessi, che è altro da noi.
Noa ed Eelco avevano un motivo per vivere e sopportare la sofferenza? Evidentemente no. In un mondo materialista, senza un’ombra di trascendenza, perché soffrire? Non mi viene in mente alcuna risposta.