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IL CONCERTO TRA FANATISMO E DIVISMO

No Vasco, io non ci casco. Reciti solo un copione

E' arrivato in elicottero come un Papa e come un Papa ha esortato ad avere paura. Vasco Rossi è stato celebrato dai 230mila di Modena come un divinità. Ma in fondo deve soltanto recitare un copione perchè la gente pende dalle sue labbra. Ma io non ci casco. 

Cultura 03_07_2017

«No, Vasco, no, Vasco, io non ci casco…». Così cantava qualche anno fa Jovanotti (un’altra «icona» della gioventù contemporanea da qualche decennio) e così verrebbe di cantare anche a me se non fosse che ho la stessa età del Rossi (il cognome nazionale) e, a differenza di lui, di cantare non mi va più. A sessantacinque anni un uomo normale sente tutto il peso della vita, vita la cui gran parte ha ormai alle spalle. E pure lui dovrà pur sentirlo, perché l’anagrafe è spietata. Anche se, per esigenze di copione, deve continuare a fare quel che fanno i dinosauri del rock, che a settant’anni seguitano ad agitarsi sul palco (come notava Ernesto Galli Della Loggia in un suo vecchio editoriale  sul Corsera).

Gianni Morandi, settantadue, dal palco c’è pure caduto l’altroieri (ma poi ci è risalito: the show must go on). Il Gianni, pur con le rughe, ha conservato nell’aspetto una faccia e una silhouette giovanilistica, e pure la folta pettinatura, che per ovvi motivi ha dovuto tingere di rosso tiziano. Con Vasco Rossi il dna è stato più inclemente: pancetta accentuata, calvizie da nascondere sotto il cappellino e che il pizzetto brizzolato invano cerca di compensare. Ma che importa ai fans? Se uno è dio, è dio.

Esageriamo? No: «divo» vuol dire proprio divinità. E qualche anno fa mise a rumore il web il post di alcune ragazzine che, avallate dal padre divertito e compiaciuto, inneggiarono a Vasco in tal senso («Sei un dio»). E non c’è divinità (o «idolo», fate voi) che non richieda sacrifici. Nel megaconcerto di Modena i fans (da «fanatic») i sacrifici li hanno fatti, eccome. Dalle sei della mattina in piedi sotto il sole, per un «evento» che cominciava alle otto e mezza di sera. Restrizioni a non finire, perché la polizia, giustamente, non voleva situazioni alla Torino (panico e gente calpestata, anche a morte) o, peggio, alla Manchester (terrorismo). Così, anche le bottigliette d’acqua dovevano essere prive di tappo e la gente ha dovuto depositare pure le chiavi di casa. Più di duecento sono stati colpiti da malore, uno è perfino morto d’infarto.

Ma per Vasco questo e altro. Confesso che conosco poche canzoni del Rossi nazionale. Ricordo soprattutto la prima, Vita spericolata, che fece dire a Nino Manfredi, presente a quell’edizione di Sanremo: «Ahò, se questo vuole una vita piena di guai, gliene dâmo un poco de li nostri!». E’ arrivato in elicottero, come il papa. E, come il papa (Wojtyla) ha esortato a non avere paura. Be’, non ha torto: ci sono almeno duecentotrentamila persone che pendono letteralmente dalle sue labbra, e quel che dice Vasco per loro è vangelo.

Nei primi anni Settanta il cantautore scozzese Donovan fu  processato (anche lui) per droga. Il giudice gli disse pressappoco così: lei ha una grande influenza sui giovani, cerchi di usarla per il bene. Donovan ne rimase molto impressionato e, scontata la condanna, pubblicò un album doppio contro l’uso delle droghe. Naturalmente, da quel momento il suo successo intraprese la via del declino. Tanto che, di quello che era considerato a quei  tempi l’anti-Dylan, oggi è scomparso  perfino il ricordo. E dire che, ai suoi tempi, veniva utilizzato perfino per la pubblicità del dentifricio («Are you a Donofan?») e, quanto a creatività, altro che Vasco. Epperò a quei tempi i concerti andavano a farseli in località deserte come Woodstock o l’isola di Whigt, e nessuno si sognava di interrompere le messe e i funerali o paralizzare una città intera per quelle che, la si giri come si vuole, sono solo canzonette.