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ISRAELE-PALESTINA

Niente pace possibile se non si rinuncia a eliminare l'altro

Tra Israele e palestinesi non si potrà mai giungere ad alcun accordo se prima non si riconoscerà reciprocamente il diritto dell'altro all'esistenza. Obiettivo che oggi appare molto lontano.

Editoriali 02_09_2024

Mentre le speranze di un vero cessate il fuoco – a parte le brevi pause per consentire la vaccinazione antipolio a Gaza – vengono sepolte da atti di terrorismo (l’uccisione di altri sei ostaggi da parte di Hamas) e di guerra di annessione (vedi l’operazione israeliana in Cisgiordania), bisognerebbe affrontare una buona volta il nodo fondamentale che impedisce qualsiasi passo in avanti per una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Ed è un nodo che viene prima di qualsiasi possibile assetto politico e istituzionale o di qualsiasi accordo territoriale. Ciò che andrebbe affermato con chiarezza e accettato dalle parti è il riconoscimento del diritto dell'altro all’esistenza. Pensare che il mondo sia migliore senza le persone che non ci piacciono o senza i partiti avversari o senza certi popoli irritanti è una tentazione comune. Ma nel caso di Israele e palestinesi – o almeno in buona parte di essi - è una convinzione profondamente radicata che impedisce ogni serio discorso per trovare non solo una soluzione definitiva ma anche un accordo temporaneo.

Riconoscere l’altro, il suo diritto all’esistenza: si tratta di un concetto che per noi cattolici dovrebbe essere scontato – Cristo è venuto per la salvezza di ogni uomo, non solo per quelli che a noi sembrano i buoni – eppure è evidente che non lo è.

Ma è la stessa realtà che si preoccupa di dimostrare che non si tratta di un astratto principio religioso, bensì di una realtà profonda: come posso pretendere che un altro si fidi di me quando è chiaro che il mio obiettivo ultimo è eliminarlo, o almeno farlo sparire dalla vista?

È esattamente il problema che nel conflitto israelo-palestinese sta sotto a tutte le altre ragioni. È fatto noto che nelle scuole palestinesi (peraltro finanziate anche dalla Unione Europea) si insegna una geografia che non prevede l’esistenza dello stato di Israele. E così anche in Iran e ovunque si sostenga la causa di una Palestina “dal fiume al mare”, uno slogan che peraltro fa da sfondo anche a tutte le manifestazioni pro-Palestina che da mesi caratterizzano l’Occidente. E lo statuto di Hamas mantiene quell’obiettivo.

Dall’altra parte, sul fronte israeliano, l’obiettivo è mascherato ma non meno reale. L’offensiva a Gaza ha sì lo scopo immediato della distruzione di Hamas, ma nel nome della sicurezza si vorrebbe spostare altrove tutta la popolazione palestinese, tentativo finora bloccato dal rifiuto dell’Egitto di aprire il confine e accettare un altro mega campo profughi nel Sinai. E l’offensiva in Cisgiordania, sviluppo della politica degli insediamenti, è chiaramente un tentativo di annessione dell’intero territorio palestinese, magari pensando così di mettere la comunità internazionale davanti al fatto compiuto.

Certo, c’è una differenza: mentre tra i palestinesi il consenso per Hamas è massiccio – e l’attuale guerra lo ha anche rinforzato – in Israele la situazione è molto più variegata. Prova ne sono le manifestazioni anti-governative che da mesi attraversano le principali città israeliane e che aumentano settimana dopo settimana, e dopo il ritrovamento dei sei ostaggi uccisi si trasformano in sciopero generale. Il fatto è che però per il primo ministro Benjamin Netanyahu la guerra è diventata una sorta di assicurazione sulla sua vita politica ed è spinto ulteriormente dell’estremismo dell’ultra destra religiosa, i cui voti sono necessari per la sopravvivenza del governo.

Tutti i distinguo possibili comunque non scalfiscono la questione di fondo: a Israele va riconosciuto il diritto all’esistenza lì dov’è – e ricordiamo che è lì in forza della risoluzione 181/1947 dell’ONU – così come ai palestinesi va riconosciuto il diritto a vivere nella loro terra.
Se non si parte da qui, se non si affronta questo nodo, tutto il resto è tempo perso.



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