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ARCHITETTURA

Niemeyer e la capitale del nulla

La morte del famoso architetto brasiliano Oscar Niemeyer riaccende i riflettori sulla sua più importante "creatura": Brasilia, la capitale del Brasile inaugurata nel 1960, massima espressione dell'ideologia positivista-tecnocratica. Le strutture sfuggono, devianodistraggono, tutto è senza meta. Sembra un tutto ordinato, ma sotto è caos. 

Cultura 16_12_2012
Brasilia, zona di hotel

Se non proprio un caso rotondo di utopia al potere, quello dell'architetto brasiliano Oscar Niemeyer, morto il 5 dicembre all'età di quasi 105 anni, è stato certamente un tentativo ben riuscito di dare potere reale all'utopia.

Originario di Rio de Janeiro, dove nacque nel 1907 con il nome di Oscar Ribeiro de Almeida Niemeyer Soares Filho, si laureò ingegnere architetto nel 1934 dall'Escola del Belas Artes e subito prese a riprogettare il mondo senza una lira in tasca. Fortemente influenzato dell'architetto e urbanista francese Charles-Edouard Jeanneret-Gris (1887-1965), noto come maestro del Movimento Moderno e con lo pseudonimo di “Le Corbusier”, di una cosa Niuemeyer era infatti certo: gli edifici, di qualsiasi genere, che vedeva sorgere lungo le strade delle città brasiliane, erano da rifare, segno sin troppo evidente di un mondo intrinsecamente errato. Non a caso, sarebbe passato davvero poco prima che il nostro s'iscrivesse nel novero di coloro che, alla scuola di Karl Marx, ritengono perfettamente inutile restare a contemplare la realtà che ci circonda, tendendo ogni millimetro dei propri muscoli nello sforzo di rifare daccapo la realtà giudicata insoddisfacente. Dopo avere preso, nel 1945, la tessera del Partito Comunista Brasiliano, Niemeyer viaggiò abbondantemente in Europa, visitò approfonditamente Mosca e si legò d'inscindibile amicizia con il vate incontrastato del comunismo lationoamericano, Fidel Castro.

Di Niemeyer sono famosissimi il Palazzo di Vetro che a New York accoglie la sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite; nel suo Brasile il “complesso Pampulha” e il Palazzo JK di Belo Horizonte nonché il Parco Ibirapuera di San Paolo; quindi la sede centrale del Partito Comunista Francese a Parigi; o il Palazzo Mondadori di Segrate, alle porte di Milano. Nulla però batte gli edifici di Brasilia, la nuova capitale della sua patria. Qui, infatti, gli stilemi e i canoni artistici che Niemeyer utilizza ovunque e sempre, trovano compimento non solo costruttivo ma soprattutto ideologico.

Convinto che il cemento armato racchiuda in sé una potenzialità espressiva di portata rivoluzionaria, Niemeyer progetta ed erige edifici dove il minimalismo arido del calcestruzzo e la patina superficiale dei lastroni di vetro s'inseguono annullando dimensioni e direzioni in un rimpiattino di barriere e di false trasparenze che beffano lo sguardo (a distanza, anche le vetrerie dei palazzi a lastroni scintillano infatti solo di oscurità). Invece di mostrare, quegli edifici celano; e la ridda d'iperboli che ne modella superfici e profili manda costantemente in contropiede l'osservatore. Ci sono curve là dove ci vorrebbero linee rette, e linearità dove invece servirebbe svolte, ma è soprattutto l'eccentricità dei prodotti finali che sbigottisce; l'eccentricità nel suo significato di cosa sbilanciata, fuori-luogo per intenzione e definizione. Senza centro, insomma, e senza senso di marcia. L'alto è sempre interscambiabile con il basso; il progresso svetta dove invece dovrebbe stare la strada di un ritorno; e le vettoriali che sembrano slanciare verso l'alto, o non hanno limiti, e quindi si perdono, oppure finiscono per piegare lo sguardo all'indietro, costringendo di nuovo a terra. Tutto è senza meta, e così, senza più accompagnamento, l'osservatore si perde dietro a strutture che sfuggono, deviano, distraggono, schivano. Sembra un tutto ordinato, ma sotto è caos: un involucro in stile positivista-tecnocratico che racchiude la chimera ideologica, vuota.

Brasilia fu inaugurata nuova capitale del Brasile il 21 aprile 1960, da Juscelino Kubitschek de Oliveira (1902-1976), presidente federale dello Stato sudamericano dal 1956 al 1961. Ora, nella storia dei Paesi del mondo la capitali vanno e vengono, si spostano, e lo fanno per motivi i più diversi. Ma Brasilia no. È stata eretta nel cuore disabitato dell'altopiano contro il carico di memoria reale dell'antica San Paolo, costruita nei secoli sull'incontro fecondo fra tradizione autoctona e cristianesimo, retaggio americano e importo europeo.

Per Brasilia, capitale del nuovo Brasile sorto dal nulla, Niemeyer ha progettato edifici residenziali, centri commerciali e residenze governative. Tra questi il Palácio da Alvorada, ovvero la residenza del presidente, le sedi di lavoro di diversi ministeri e persino la cattedrale. Ma, a guardarla bene, ogni costruzione di Brasilia pretende di riflettere l'intero complesso cittadino; come se il macrocosmo della capitale si replichi potenzialmente all'infinto in tutti i microcosmi, rigorosamente uguali gli uni agli altri nella concezione, di ogni suo singolo edificio, supremo omaggio architettonico alla serialità dell'arte contemporanea resa celebre e pop da Andy Warhol.

Il grande che a Brasilia si specchia nel piccolo, e viceversa, non è infatti, un respiro d'infinito, ma un gioco di specchi che non ha capo né coda, dove per esempio il palazzo presidenziale e la chiesa madre sono comunisticamente uguali nell'idea civile che li origina. Il contenitore, cioè l'edificio niemeyeriano, modella il contenuto, laddove invece quell'architettura che nasce da una comunità umana davvero esistente - onde ottemperare a due necessità fondamentali dell'uomo, la funzionalità e la bellezza (che nei migliori dei casi, storicamente parecchie volte documentati, vanno a braccetto) - avviene il contrario: il modo in cui è costruito il contenitore serve il contenuto.

Nella Brasilia degli uomini nuovi senza radici, tutto avrebbe dovuto essere posseduto dal governo e affittato dai lavoratori: non è andata così perché poi la realtà ha preso come sempre il sopravvento e ognuno si è messo borghesemente a pensare per sé, ma Niemeyer la capitale del nulla l'aveva pensata così.
La temperie culturale in cui Brasilia è nata era del resto quella dominata da quel populismo che resta un elemento chiave della storia del Paese sudamericano nel secolo XX, addirittura un caso di studio mondiale nella sua pretesa di porsi come laboratorio ideologico globale.

La storia del Brasile, infatti, è, dall'inizio del Novecento, un susseguirsi d'impulsi modernisti e parafascisti nel cui seno incubano carsicamente le premesse della grande svolta a sinistra costituita dal tradimento dei chierici cattolici che è stata la teologia della liberazione d'impronta marxista-leninista, il tutto mediante un inedito rigurgito positivistico-tecnocratico (il Brasile è uno degli ultimi luoghi del mondo dove l'ammuffita pretesa del filosofo francese Auguste Comte di sostituire la religione con la scienza viene ancora presa sul serio). L'obiettivo è sempre stato lo stesso: sradicare un popolo profondamente cattolico - agendo su tutti i piani, dalla politica all'arte, e passando in seguito persino attraverso la modifica dell'ortografia della lingua portoghese ivi parlata - onde produrre una massa nuova e pilotabile, alienata e informe quanto lo è il suo centro logico, Brasilia, di cui Niemeyer è stato il profeta con falce, martello e cazzuola.