Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
MEDIO ORIENTE

Netanyahu rischia di portare Israele alla rovina

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Il premier israeliano prosegue a testa bassa nella guerra contro Hamas in un crescente contesto di isolamento internazionale. Ma gli obiettivi sono ormai irraggiungibili. Solo le elezioni e un cambiamento di governo potrebbero fermare questa deriva.

Editoriali 29_05_2024
Il premier israeliano Netanyahu

Indifferente alle condanne internazionali, soprattutto dopo la strage di lunedì nel campo profughi palestinese, e agli appelli degli alleati, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha dato il via all’operazione Rafah. E ieri i carri armati israeliani sono entrati nella città a caccia dei militanti di Hamas, anche se gli Stati Uniti si sono affrettati a chiarire che non si tratta di una offensiva massiccia.

Sebbene ci sia chi sostiene che il comportamento dell'esercito è parte di una strategia vincente per ridurre al minimo le capacità di Hamas di colpire ancora Israele, l’impressione che abbiamo è che si tratti invece di una preoccupante deriva violenta che sta portando Israele verso il suicidio. Come sostiene Mark Lavie su The Jerusalem Post, la guerra di Israele contro Hamas è già persa, perché ha fallito i due obiettivi che il governo aveva annunciato all’indomani del 7 ottobre: eliminare Hamas e riportare a casa gli ostaggi.

Quanto agli ostaggi, oggi si fa anche fatica a credere che ce ne sia rimasto qualcuno vivo, ma per Israele sarà un’impresa anche recuperare eventualmente i loro corpi, che per Hamas sono comunque buoni come arma di ricatto politico.

Sul fronte militare invece, dopo sette mesi di guerra Hamas avrà pure perso parte della sua capacità operativa e un buon numero di miliziani, ma è ancora ben viva e vegeta, come dimostra il lancio di razzi di domenica scorsa su Tel Aviv. E inoltre i suoi capi sono ancora tutti lì, sfuggiti alla caccia dell’intelligence e dei soldati israeliani. Senza contare che le perdite sul campo, grazie all’ulteriore odio alimentato in questi mesi dall’offensiva israeliana, potranno essere rimpiazzate, almeno in parte, da nuovi aspiranti “martiri”. Insomma eliminare fisicamente Hamas appare irrealizzabile.

Ma la vera vittoria di Hamas al momento è politica: il mondo ha dimenticato in fretta l’orrore del 7 ottobre 2023 e possiamo pensare che i terroristi palestinesi contassero sulla reazione violenta di Israele e su un gran numero di vittime civili palestinesi (probabilmente molte meno di quel che dicono le cifre ufficiali fornite da Gaza ma comunque tante) per mettere in difficoltà Israele con i suoi alleati occidentali.
Infatti, in questi mesi la pressione su Netanyahu dei Paesi europei e soprattutto degli Stati Uniti per il cessate il fuoco si è fatta sempre più decisa, fino al punto da mettere in discussione le relazioni, soprattutto con l’amministrazione Biden. E la creazione di uno Stato palestinese è tornata in cima alle priorità internazionali dopo anni di disinteresse generale: proprio nei giorni scorsi tre Paesi europei – Spagna, Irlanda e Norvegia – hanno annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese e altri sono pronti a farlo senza più aspettare un accordo tra Israele e i palestinesi. E lo scorso 10 maggio l’Assemblea generale dell’ONU ha approvato una risoluzione che chiede il riconoscimento della Palestina come membro a pieno titolo delle Nazioni Unite.

La strage di due giorni fa nel campo profughi palestinese nei pressi di Rafah («Un tragico errore» secondo Netanyahu) non ha fatto altro che fare alzare ancor più le voci internazionali di condanna di Israele. Ciò che probabilmente Netanyahu non considera a sufficienza è che questa è anche una guerra di comunicazione: con tutti i riflettori puntati su Gaza, ogni violenza, ogni errore, ogni misfatto ha immediatamente un rilievo internazionale, alimentando le reazioni dei gruppi pro-palestinesi in tutto il mondo. E anche Biden, soprattutto alla vigilia di una campagna elettorale che si preannuncia durissima, deve tenere conto di un suo elettorato filo-palestinese sempre più in ebollizione.

Probabilmente Netanyahu sottovaluta il contesto internazionale: non solo le elezioni americane, c’è una opinione pubblica in Occidente che ha sposato la causa palestinese e preme sui rispettivi governi. Le piazze delle principali città europee e le Università sono sistematicamente occupate da manifestanti pro-palestinesi che vedono saldarsi associazioni di immigrati islamici e partiti di sinistra. Si tratta di una forza che potrebbe cambiare drasticamente anche l’atteggiamento dei governi occidentali. Sarà interessante, ad esempio, vedere cosa accadrà nel Regno Unito dopo le elezioni del 4 luglio in cui si dà per scontata la vittoria dei laburisti, che stanno promettendo ai palestinesi un cambiamento radicale nella politica per il Medio Oriente.

Al crescente isolamento internazionale, per Netanyahu si aggiungono le difficoltà interne: c’è una parte di opinione pubblica che chiede a gran voce il cessate il fuoco, un negoziato e il ritorno degli ostaggi. E ovviamente la richiesta di dimissioni e di nuove elezioni raccoglie sempre più sostenitori. Il premier israeliano – che quasi certamente sarebbe sconfitto in caso di elezioni - però non ci sente, prosegue per la sua strada, spinto anche dalla destra religiosa (indispensabile per la sua sopravvivenza al governo), ma ora rischia comunque la crisi. Il suo principale oppositore, Benny Gantz, minaccia di uscire dal “gabinetto di guerra” formatosi all’indomani del 7 ottobre, se entro l’8 giugno Netanyahu non presenterà un piano condivisibile per il dopo-guerra.

Questo è infatti l’altro punto critico: qual è il vero obiettivo di Netanyahu? Qual è il progetto per il futuro di Gaza? Finora il premier si è sempre rifiutato di fornire un’idea precisa sul dopo, anche se allo stato attuale sicuramente esclude la nascita di uno Stato palestinese autonomo. Ma questa mancanza di chiarezza o di trasparenza sugli obiettivi rende anche impossibile un negoziato serio. Piuttosto offre la prospettiva di una guerra a tempo indefinito che, per come si stanno mettendo le cose, rischia di essere sempre più “Israele contro tutti”.

Per evitare una situazione che sarebbe rovinosa per Israele, l’unica strada sono elezioni: un nuovo governo in grado di riprendere, insieme all’azione militare, anche l’iniziativa politica e di ricucire i rapporti internazionali per neutralizzare la minaccia di Hamas. E soprattutto un governo che abbia la volontà e la lungimiranza di ipotizzare una soluzione definitiva del conflitto israelo-palestinese. Una strada tutt’altro che facile, ma l’unica percorribile.

 



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